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Il campionato musicale Boomers vs Millennials ha rotto il cazzo

Viviamo in tempi terribili e allucinanti, e no, non mi riferisco solo al fatto che i propri tweet e post sui social possano diventare di tendenza a nostra insaputa nel giro di pochi minuti rovinandoci la vita, alla prospettiva dell’annichilimento ambientale o che ci sia effettivamente gente che considera i carlini dei cani meravigliosi. La presunta battaglia fra boomers e millennials è uno degli ultimi prodotti di una cultura che pone persone e generazioni gli uni contro gli altri, quando i problemi sistemici attuali che affliggono la società e il mondo interessano tutti, e da tutti quindi andrebbero affrontati. Ovvio che ci sia anche una percentuale di cazzeggio e di aspetto ludico in questa faccenda dei boomers contro i millennials e viceversa; così come anche è giusto che le nuove generazioni cerchino di rimarcare le differenze da quelle passate per ricercare una propria identità. Ma a mio avviso tutta la questione è un po’ sfuggita di mano, amplificata, rinforzata e diffusa come al solito dai media, social in primis. Si dimentica che c’è del buono e del cattivo in entrambe le categorie: non serve a niente sparare frasi fatte del tipo “i giovani di oggi sono pigri, senza valori e abituati ad avere tutto e subito” se poi proprio tu, boomer, rimani attaccato come una cozza ai tuoi privilegi (magari immeritati) ed hai instillato nei tuoi figli (millennials, guarda caso) il culto del consumismo e dell’edonismo per poter fare bella figura in società; così come non serve altrettanto a nulla deridere gli stessi boomers accusandoli di essere insensibili, egoisti e dalla mentalità chiusa, se poi te, millennial, preferisci fare la parte della vittima sui social senza invece organizzarti, protestare e combattere contro ciò che ritieni che non vada bene.

Insomma, il problema come al solito è fare di tutta l’erba un fascio, quando invece razionalità vorrebbe che ci fosse un minimo di discrimine per meglio comprendere fenomeni, situazioni ed eventi. Ma siamo tutti stanchi, magari poveri come la merda ed anche alquanto incazzati, e fa sempre comodo prendersela con gli altri per tutto ciò che non va nella nostra vita. E poi sappiamo bene che le analisi sociologiche non funzionano nell’odierna epoca della (mancata) comunicazione, di certo non attirano like e condivisioni quanto invece potrebbero fare una frasetta ad effetto o un memimo creati per ricevere attenzioni dalla propria cerchia sociale.

Tutto questo inutile panegirico per ricordare un altro aspetto a mio avviso interessante: la dissonanza cognitiva tramite la quale l’industria culturale cerca di farci vivere vite non nostre riesumando prodotti culturali del passato, dalla musica al cinema, dalla moda alla letteratura, soprattutto quelli degli anni ’70/’80/’90 (e si iniziano a riciclare pure i primi anni 2000). Parlo di dissonanza perché da una parte si alimenta l’insensata guerra “Boomers vs Millennials” dove le due parti in causa cercano di prendere le distanze le une dalle altre; nello stesso tempo però si fa di tutto per rievocare un passato mitico – anzi, mitizzato – sbattendo in faccia alle generazioni contemporanee mondi che non appartengono a loro (ma che ben infiocchettati e venduti possono sempre far presa, vedi un caso clamoroso come Stranger Things) ed impedendo quindi all’immaginario collettivo di assumere nuove ed imprevedibili forme. Eppure di roba nuova da raccontare ce ne sarebbe a bizzeffe, solo che all’industria culturale contemporanea interessa solo tirare a campare e mantenere in piedi l’intero baraccone, e quindi giù di remake, reboot, revival, rifacimenti, riesumazioni, citazioni e via dicendo. Un millennials o un appartenente alla Generazione Z che fa binge watching su Stranger Things o sull’ennesima serie con ambientazione anni ’90 non suona un po’ strano? O il fatto che un pezzo come Running Up That Hill (A Deal with God) ritorni in classifica dopo ben trentasette anni? Fa ovviamente molto piacere che un’artista enorme come Kate Bush faccia di nuovo parlare di sé, ma nello stesso tempo è impossibile non notare come almeno negli ultimi dieci anni la retromania abbia quasi completamente dominato il panorama culturale odierno. L’ambito musicale mainstream è stato particolarmente interessato dal revivalismo. I Maneskin, sotto questo punto di vista, sono il prodotto perfetto perché riescono a capitalizzare sia la nostalgia dei boomers, coprendo con la loro musica e l’immaginario di riferimento un periodo molto vasto che va dai ’70 ai primi anni ’90, e sia la voglia di melodie facili del pubblico generalista e che ammiccano ai gusti dei millennials.

Kate Bush che mira ad un assegno a sei zeri dopo essere finita in Stranger Things


Avevamo davvero bisogno del ritorno di Avril Lavigne (mentre lo scrivo stento a crederci io stesso…), una quasi quarantenne che gioca ancora a fare l’adolescente come all’epoca di Sk8ter Boi? E che dire di ritrovati bellici che sembravano ormai sepolti dal tempo come i Gazosa? Tutte queste operazioni commerciali giocano sull’effetto nostalgia perché è molto più facile promuovere ciò che già si conosce invece che puntare e rischiare su nomi nuovi e freschi. CEO e presidenti di compagnie quotate in borsa blaterano sull’importanza di investire per offrire ai consumatori prodotti di qualità, quando invece la realtà è solo una: fare cassa. Zero coraggio, zero rischio, zero opportunità. Con effetti alla fine paradossali e con un generale impoverimento per le masse e per chi davvero tiene alla musica di qualità, la quale viene relegata giorno dopo giorno nei circoli underground.

Le attuali generazioni vivono immersi quindi in questa dissonanza – attrazione che diventa feticizzazione per i prodotti musicali del passato, rifiuto di una buona parte di quella visione del mondo plasmata dagli ultimi sessant’anni. Ovviamente l’attrazione non è verso tutta la musica del passato (sarebbe alquanto strano) ma solo verso ciò che meglio può essere riadattato al presente vissuto da millennials e Gen Z. Per questo Rolling Stones può buttare giù un articolo in cui fa un elenco di alcuni dischi amati dai boomers ma ignorati dai millennials. Il titolo è chiaro: “40 album amati dai baby boomers e sconosciuti ai millennials”. L’accento, come spesso accade, è sulla presunta ignoranza musicale delle nuove generazioni verso ciò che concerne le vecchie. Assai raramente avviene il contrario. Perché non ci si domanda se anche i boomers conoscono i dischi che piacciono ai millennials? Perché il passato deve essere sempre considerato più importante del presente? Mi sembra che lo snobbismo musicale sia più marcato nelle vecchie generazioni anziché nelle nuove. Musicalmente parlando, boomers e Generazione X hanno fra loro molto più in comune che con millennials e Gen Z – c’è molta più “affinità” fra Led Zeppelin e Nirvana che fra Marilyn Manson e Billie Eilish – ma questo non giustifica il fatto che ancora oggi debba persistere una certa idea di superiorità culturale del passato musicale nei confronti del presente. Forse è anche per questo che il revivalismo è una corrente molto forte nell’industria musicale odierna: il mito di un’età dell’oro che bisogna continuamente alimentare e tenere ben salda di fronte ai nostri occhi. Bisognerebbe invece andare al di là di queste inutili contrasti: ne guadagneremmo tutti, vecchie e nuove generazioni, perché di musica interessante, capace di aprire mondi sonori inimmaginabili, ce n’è ancora tantissima.
Cinquant’anni fa come l’anno scorso.

Mi permetto allora di provare a stilare alcuni dei dischi amati dai millennials e che, forse, le vecchie generazioni non conoscono. Ho lasciato fuori i nomi grossi – Radiohead, Beyoncé, Kanye West fra i tanti, giusto per capirci, anche se ho voluto includere Billie Eilish perché giovanissima e ancora con tanto potenziale da sfruttare – prediligendo nomi di culto ma che hanno lasciato comunque la loro impronta negli ultimi vent’anni di musica. Inutile dire che è una lista estremamente parziale (e che magari aggiornerò, chi lo sa). I boomers ne facciano quello che vogliono: magari scopriranno che ci sono molti più punti in comune con i loro gusti che differenze.

Godspeed You! Black Emperor – Lift Your Skinny Fists Like Antennas to Heaven (2000)

MF Doom – Madvillainy (2004)

Gorillaz – Demon Days (2005)

M.I.A. – Arular (2005)

Burial – Untrue (2007)

Sunn O))) – Monoliths & Dimensions (2009)

Flying Lotus –
Cosmogramma (2010)

Xiu Xiu – Dear God, I Hate Myself (2010)

Bon Iver – Bon Iver (2011)

Death Grips – The Money Store (2012)

Frank Ocean – Channel Orange (2012)

Arca – Mutant (2015)

Tyler, The Creator – Cherry Bomb (2015)

Sophie – Oil of Every Pearl’s Un-Insides (2018)

JPEG Mafia – Veteran (2018)

FKA Twigs – Magdalene (2019)

Poppy – I Disagree (2020)

Billie Eilish – Happier Than Ever (2021)

Purgatorio a doppio livello

Non era mai successo ma qualche giorno fa sono rimasto incolonnato per ben trenta minuti in un parcheggio nel centro della città. Avevo pagato e tutto, e come altri disperati motorizzati sono entrato nella mia macchina, acceso l’aria condizionato per scacciare dai miei polmoni l’odore fetido impregnato di gas di scarico e umidità e mi sono preparato ad abbandonare quel purgatorio dal soffitto basso.
Non sapendo, però, che da lì a poco si sarebbe trasformato in un inferno.
Trenta minuti in un parcheggio a doppio livello.
Auto incolonnate.
Gente che parla, gesticola, si annoia, ogni tanto strombazza, il più delle volte sbadiglia.
Li guardavo dagli specchietti, e notavo dei grandi punti interrogativi sulle loro teste.

Un tempo che sembra infinito.
Che scivola di lato come nel letto di un fiume, senza guardarsi indietro.

Si possono perdere trenta minuti per uscire da un semplice parcheggio? Quel tempo non ritornerà più, e chissà quante cose si sarebbero potute fare in trenta minuti. Chessò, leggere qualche pagina di un romanzo, vedersi una puntata di una serie (anche se ormai durano un’ora o più), cucinare una nuova ricetta, scopare, farsi una passeggiata nel quartiere, risolvere un cruciverba difficilissimo, scrivere un pezzo su WordPress.
Annoiarsi, pure. Ma potendo almeno scegliere in che modo.

Ora, invece, tutto ciò che rimane sono trenta minuti permeati di senso di claustrofobia, pareti luride e senso di impotenza. Una parentesi, che si sa dove si apre ma non dove si chiude. Perché, a pensarci bene, passare così tanto tempo in un parcheggio a doppio livello non si addice tanto all’inferno, bensì al purgatorio. Perché si attende, e si spera in un segno salvifico che possa illuminare il cammino verso il luminoso cancello che conduce all’uscita del purgatorio a due piani. Neanche Dante avrebbe potuto immaginare qualcosa del genere, e se avesse visto quella fila infinita di auto scure nel quale gli uomini sembrano imbalsamati, forse si sarebbe spaventato.

In quel parcheggio a due piani, ogni persona in attesa di andarsene finalmente per i fatti suoi ha lasciato un pezzo del suo tempo. Non so esattamente che forma abbia, ma so che sta lì. Forse si è appiccicato al pavimento, fra le cicche e i segni lasciati dai pneumatici; si è dissolto nella luce al neon; è stato risucchiato nei condotti metallici, sbattuto da una parte all’altra. E ora cerca una via d’uscita, anche lui. Alcuni frammenti avranno raggiunto i loro legittimi proprietari, magari nel sonno, nelle loro camere da letto al diciottesimo piano di un palazzo. Silenziosi come ladri. Altri, invece, staranno ancora vagando nei condotti, persi nel buio.

Alla fine Caronte ha avuto la forma di un signore minuto, senza capelli, aggrappato alla macchinetta per pagare i biglietti come se temesse che pure quella potesse saltare la barra d’uscita e scappare via nel traffico. Chissà cosa gli sarà sembrata quella carovana a quattro ruote, a lui, guardiano del purgatorio, l’unico a poter decidere delle nostre sorti. A metà strada fra purgatorio e paradiso.
Oppure non gliene sarà fregato un cazzo. Avrà posato il suo sguardo indifferente su quello spettacolo monotono, avrà tirato su un bello sbadiglio e avrà fatto pagare l’ennesimo biglietto. E un altro, un altro ancora e così via.

Sarà stato così anche per me, quando mi sono avvicinato con la mia auto abbassando il finestrino. L’ennesimo idiota che ha deciso di passare trenta minuti della sua vita in quel modo. Ha staccato l’ennesimo biglietto e con esso l’ennesimo sorriso, veloce e distratto, fatto con quelli occhietti piccoli e scuri. Siamo tutti parte di un enorme macchina che gira su se stessa sempre più vorticosamente; l’unica differenza è fra chi se ne accorge e chi no. Ma anche accorgendosene, non è che possa fare questa grande differenza.

Sorpasso la barra e sono fuori a riveder le stelle.
Mi tolgo dalla testa il mio punto interrogativo, faccio per buttarlo dal finestrino ma poi ci ripenso. Lo faccio ripiombare sul sedile del passeggero. Le occasioni per utilizzarlo di nuovo non mancheranno di certo.

Ci vuole un’altra vita.

Playlist your (awful) life

Le playlist dominano le nostre vite di ascoltatori. Sono ovunque e ce ne sono di qualsiasi tipo: viaggi (in montagna, al mare, in pianura, in campagna, in collina, nello spazio); sport (palestra, arrampicata, trekking, corsa, salto coi sacchi); eventi (matrimoni, compleanni, anniversari, lauree, funerali, quella rimpatriata del liceo che volevate a tutti i costi evitare); mezzi di locomozione (auto, aereo, barca, bicicletta, a piedi, skate, monopattino, triciclo, aliante, tappeto volante); attività quotidiane (respirare, cucinare, scopare, fare il bucato, meditare, lavarsi, studiare, scrivere, leggere, pregare, dormire, rubare, uccidere, portare fuori il cane a pisciare, pestare un merdone puzzolente). Su Spotify ce n’è una dedicata al Ramadan. Per non parlare di quelle dedicate agli umori e alle sensazioni del momento, potenzialmente infinite.

Quelle delle playlist è una moda che ha preso piedi ormai da una decina d’anni, e portata alla ribalta proprio con la diffusione e l’uso sempre più massiccio dei servizi di streaming musicali. A mio avviso, la differenza principale rispetto alle più classiche compilation è che oggi le playlist tendono ad essere sempre più circoscritte: c’è una playlist per qualsiasi cosa. E non si parte tanto dalla musica – la classica compilation di brani preferiti da sparare in macchina, ad esempio – bensì dall’ascoltatore, cioè dall’individuo e dalle sue emozioni, sensazioni, esigenze ed attività particolari. Per quanto ne sia riuscito a capire, al centro della playlist, quindi, c’è l’Io che determina che flusso dare alla musica e la adatta di volta in volta.
Ad una prima occhiata, non sembrerebbe niente di nuovo rispetto alle compilation che si buttavano giù un tempo per rendere più piacevole una qualsiasi attività, tipo appunto un tragitto in auto. Cosa succede però quando la pratica della playlist diviene il modo predominante (soprattutto fra i giovanissimi) per usufruire ed interagire con il linguaggio musicale? Cosa succede quando le piattaforme di streaming ormai alla portata di tutti, appassionati o meno, sfruttano il mezzo della playlist per i loro modelli di business, producendone sempre di nuove e promuovendone il consumo?

Succede che l’esperienza d’ascolto diventa frammentata, oltre che estremamente soggettiva. Credo che la tendenza, per ora non predominante, a puntare più sui singoli o su uscite considerate “minori” (tipo gli Ep di tre o quattro tracce) mettendo in secondo piano l’organicità degli album, sia coincisa nell’ultimo decennio circa con il prepotente emergere delle playlist. È visto come normalizzato l’atto di estrapolare una qualsiasi canzone da un album di 40 minuti e piazzarla in una playlist con altre centinaia di brani che con quel pezzo non hanno nulla a che fare; una cosa del genere, anche solo 20 o 25 anni fa, non sarebbe stata concepibile nell’ambiente mainstream. Questo è stato possibile proprio perché abbiamo accumulato così tanta musica di ogni tipo, di ogni genere, stile, provenienza e tematica che la nostra esperienza è simile a quella della torre di Babele o ad una specie di borgesiano labirinto musicale, una collezione continuamente in espansione che sfugge al nostro controllo e che cresce per inerzia secondo logiche sconosciute. O conosciute solo agli imponderabili algoritmi, i guardiani ai cancelli del regno virtuale che ci mostrano solo la punta dell’iceberg, nascondendoci per lo più quell’intero universo di musica che continua inesorabilmente a svilupparsi.

Succede anche che la musica ascoltata diventa mero oggetto di sottofondo, utile ad accompagnare ogni nostra attività quotidiana. Non si ascolta un brano per la voglia di ascoltare musica in sé: lo si fa perché esso in quel momento svolge un ruolo, ha una funzione determinata dal nostro mood o da ciò che stiamo facendo. Una volta che una playlist finisce, rimane ben poco, se non nulla; l’ascolto non ha conseguenze, non se ne esce diversi, e questo per il semplice fatto che una volta espletata la nostra attività, la musica cessa con essa. Effettivamente, se le cose stanno in questo modo, sarebbe improprio parlare anche di ascolto vero e proprio; è più un sentire, percepire suoni e ritmi deprivati del loro senso e ricomposti secondo il senso che essi assumono per noi. Tengo a sottolineare che non c’è niente di male in questo: si ascolta musica anche solo perché essa fa “compagnia” (mia nonna accendeva la tv non per guardare qualcosa ma perché il vociare ininterrotto dei programmi e della pubblicità le tenevano compagnia), per riempire il silenzio che magari rischierebbe di essere opprimente ed angosciate, per sentirsi meno soli. Perché una parte di noi sa che se mettiamo su un brano, allora tutto ciò che stiamo percependo o facendo in quel momento viene amplificato alla massima potenza, per dargli una forma ben specifica. Una che sia pienamente, irrimediabilmente nostra.

Nulla, assolutamente nulla di sbagliato in ciò. Lo facciamo tutti. Non posso però smettere di farmi la stessa domanda: cosa succede quando questo processo diviene predominante e diffuso su scala globale?

I colossi dello streaming vogliono convincerci che ogni momento è buono per mettere su una playlist: per perdere il contatto con il presente, per rivivere vite passate o per non pensare. In sostanza, per rinchiuderci nella nostra piccola bolla fatta a nostra immagine e somiglianza. Dove niente può farci male, niente può entrare o uscire se non siamo noi a deciderlo. Dove la musica è, alla fine, il vero intruso. E quale miglior momento se non durante una pandemia globale dove i rapporti non virtuali sono estremamente limitati? Spotify, Apple Music e compagnia streaming vogliono convincerci che abbellire in questo modo le nostre vite può renderle più sopportabili, ma chi te lo fa fare a sbatterti per scoprire musica nuova, musica un filo più complessa di quello che passa per la maggiore, guarda qua piuttosto, manda giù questa playlist nuova di zecca, tieni, chiudi gli occhi e passa tutto… Oltre al binge watching abbiamo anche il binge listening.

La vita si sta facendo giorno dopo giorno sempre più assurda, difficile, contorta, improbabile, impossibile. O forse lo è sempre stata ed è semplicemente una questione di prospettive, di tempistiche, di accortezze. Di saper annusare l’aria intorno come fanno i cani. Ci saranno abbastanza playlist per accompagnare questi momenti? E siamo sicuri di voler dare loro un suono? Di renderli reali? Chi vincerà fra l’algoritmo e l’imprevedibile?

Questa è la prima di una serie di playlist completamente inutili. Proprio come le nostre vite.
Playlist your life… and the rest will follow.

Per ascoltare tutti i brani nella loro interezza si suggerisce di aprire la playlist su Spotify, da pc o da cellulare.

Radio a Sonagli – Aprile 2022

Il tempo per ascoltare tutto ciò che si vorrebbe è sempre meno, accerchiato, ridotto e spremuto come un limone marcio fra le duemila inutili cose che la cosiddetta realtà pretende da noi. Non c’è tempo per nulla, per ascoltare, capire, analizzare, comprendere, usare il cervello ed eventualmente decidere pure di lanciarlo dal terzo piano. Non c’è tempo per decidere. Non c’è tempo per decidere perché sembra tutto già deciso. Da chi? Da cosa? Ognuno potrà spuntare la casella che più ritiene opportuna dal proprio taccuino dei rimpianti e dei buoni propositi rinviati a miglior tempo. Potessimo almeno guardarci allo specchio e scorgere qualcosa…

Il nuovo disco dei GGGOLDDD si guarda allo specchio e dichiara con un sussurro una verità semplice, chiara e limpida, e proprio per questo sconcertante e dolorosa: questa vergogna non dovrebbe essere mia. Chi me l’ha appiccicata addosso? Perché questo olezzo disgustoso che proviene dalla mia pelle? È quella condanna che va sotto il nome di senso di colpa, un marchio vecchio come il mondo e l’universo, anzi no, mondo e universo sono privi di colpa e quindi di senso di colpa, sono meravigliosi e splendenti come il sole che si irradia in una luce bianca e la luna che smuove le maree e che continueranno a farlo per chissà per quanti miliardi di anni, fino a quando quell’enorme lampadina lassù non scaricherà definitivamente le sue batterie. Ed allora anche il senso di colpa – vecchio come l’essere umano, questo si – scomparirà inghiottito dall’ombra eterna della notte, finalmente coperto da un lenzuolo come un freddo cadavere. Colpa, senso di colpa, condanna, controllo ed espiazione: stupidi concetti creati ad arte da uomini ciechi e vuoti per far sentire indifesi chi invece vorrebbe soltanto essere una piccola cosa libera e dal cuore semplice, e che verranno risucchiati in un attimo dal sole nero della notte, neanche dimenticati perché non potrà neppure esserci il ricordo. Violenza e sopraffazione, in tutte le sue forme, saranno azzerate, tutto sarà ridimensionato, ripensato, ricollocato ad una scala infinitamente più piccola; donne che hanno conosciuto questa vergogna indicibile per mano di uomini che si sono creduti Dio – ma piccoli come bambini – potranno finalmente trovare un po’ di pace, farsi aria, nuovo ossigeno, nuova terra, nuova erba, nuovi alberi, nuove nuvole, nuovi pianeti e nuovi soli. Nuova vita. Altrove, ovunque.

I didn’t see it coming

I shed some light on the ferocious complexity

I want the smell to leave me

I wanna shower till my skin comes off

Il resto è appunto vita musicale che scorre in rivoli chiaroscuri. Possono farsi turbolenti e torbidi, come l’ultimo degli Immolation, una dichiarazione di guerra e di rivolta contro Dio e i suoi profeti in buona e cattiva fede, anche lui invocando il sole nero dell’ultima notte, o, ancora, l’album omonimo di Corpsegrinder, che detta il ritmo possente dei tamburi della guerra prossima ventura e di quelle già in corso; fluidi e multicolore, come le canzoni dei Guerilla Toss, che più che canzoni sono deliri e visioni tossiche, ma di quella tossicità buona, dolce, che appanna i soliti cinque sensi per farne emergere altri dieci di cui non si conosce l’esistenza, fra cui quello che consente di vedere proiettate nella mente di chi ascolta le onde sonore della nostra voce e di surfare su arcobaleni multicolore per sentirsi (finalmente) vivi; freddi e glaciali come i tappeti sonori dei Cannibal Ox di The Cold Vein, nonché messianici come quel monolite impenetrabile di Irrlicht di quell’essere metà uomo e metà macchina proveniente dalla galassia Moog Klaus Schulze, entrambi robot deliranti, errori nelle equazioni che non dovrebbero esistere, e che tuttavia rivelano un’umanità più profonda dell’umano stesso, il bagliore dietro agli occhi di metallo dell’automa di Metropolis, un nuovo Big Bang esploso dalle frequenze degli eterni sintetizzatori al centro dell’universo; algidi e sinuosi, un gelato alla panna jazz con praline soul e r’n’b dal nome Tinted Shades da quel genietto di Joe Armon-Jones insieme alla voce delicata come il vetro di Fatima, e accecanti come una luce che lentamente si dischiude proprio al centro della stanza, un’apparizione che lascia intravedere l’altra parte dello specchio – Pang di Caroline Polachek, anche lei metà essere umano e metà macchina, ma perfezionata e portata a punto per l’umanità prossima futura, un essere polimorfo dalle profondità oceaniche che ricorda tutto, anche ciò che non ha mai veramente vissuto come gli anni ’80 di Songs from the Big Chair dei Tears for Fears, un oggetto musicale, questo, che riesce a scrollarsi di dosso la polvere accumulatasi in più di trent’anni di storia ad ogni ascolto, perfetto, rotondo, brillante, con un piede nel suo tempo e un piede altrove (e che, come i ricordi più belli o i traumi, riappare lì dove meno te lo aspetti, vedere alla voce Eat the Elephant degli A Perfect Circle).

Finché poi tutto – l’ascoltato e l’inascoltato, l’ascoltabile e l’inascoltabile – non verrà ancora una volta inghiottito dalla notte eterna del sole nero. Rimarrà solo Sirio a risplendere dalla Terra, mentre gli ultimi uomini guarderanno il cielo chiedendosi quale sia il luogo dove le stelle nere sono ancora appese.

Surfare sull’arcobaleno con i Guerilla Toss per sentirsi vivi

Si parlava di prog qualche tempo fa (qui e in parte anche qui), della sua innata apertura verso la sperimentazione e di come questa attitudine sia diventata nel tempo il principale lascito del genere per le successive generazioni future di musicisti. Parlare di progressive rock in senso stretto nel 2022 può suonare anacronistico, ma farlo in senso lato, cioè appunto di “attitudine a la prog rock“, non tanto. Quest’attitudine è viva e vegeta in una marea di gruppi contemporanei: uno di questi sono i newyorkesi Guerilla Toss. Ieri sera li ho visti suonare in città, ed è stato un concerto estremamente carico e coinvolgente, dove il ballo si è mischiato al pogo, il canto alle urla, i synth multicolore alle chitarre slabbrate, l’analogico al digitale.
Il trio (accompagnato dal vivo da basso e tastiere) è reduce dalla pubblicazione del quinto album Famously Alive, un ulteriore passo verso quella rotondità sonora e stilistica avviata dal precedente Twisted Crystal e che non fa altro che smussare gli angoli più appuntiti della loro proposta, rendendola potenzialmente più appetibile ad un pubblico più ampio (per di più è uscito per Sub Pop, quindi gli hipster alla Pitchfork e che vanno al Coachella non avranno problemi ad approcciarsi a loro).
Chiaro che la psichedelia più acida trasmutata direttamente da gente come The Flaming Lips tiene insieme il tutto; quella strana sensazione di essere immersi in una gigantesca bolla multicolore che pervade le narici con fumi lisergici è sempre presente, se non più accentuato, solo che sui pezzi di Famously Alive si innesta una ricerca della melodia prettamente pop molto più marcata. Dal vivo, infatti, pezzi come la title track – che ha aperto il concerto, e non poteva essere altrimenti – Live Exponential e Cannibal Capital fanno subito presa (lo fanno su disco, figuriamoci dal vivo dove tutto è ancor più amplificato!). Non ne parliamo poi di un pezzo come Wild Fantasy, per il quale è impossibile tenere fermi sia testa che culo e che dal vivo, invece, diventa una cavalcata krautrock lanciata a velocità supersonica a bordo del gatto Nyan su un arcobaleno cosmico. Insomma, chiaro no? Se avete voglia di un buon trip, Famously Alive fa proprio al caso vostro.

A dispetto di un un inizio un po’ in sordina e di alcuni trascurabili problemi sul palco, i Guerilla Toss hanno semplicemente spaccato, suonando compatti e puliti. Dal vivo esce fuori tutta la loro tecnica, e cazzo! ci si rende subito conto di avere di fronte musicisti di un certo calibro, principalmente batterista e chitarrista, ma soprattutto il batterista, Peter Negroponte, motore della band dal tocco funk e jazz, ma che non disdegna qualche legnata ben assestata quando il pezzo lo richiede.
Le legnate, già! Non sono mancate neanche quelle, e quanto più la scaletta si è avvicinata alla sua conclusione, tanto più i Guerilla Toss hanno spinto sull’acceleratore con schizzate pazze punk e deliri funk che rimandavano direttamente alla prima parte della loro carriera (a quel disco incredibile di Eraser Stargazer, che sempre sia benedetto!). L’equilibrismo dato fra la pesantezza della sezione ritmica e la leggerezza data dall’intreccio chitarra/voce/synth è una delle qualità più interessanti dei concerti dei Guerilla Toss e che nella loro discografia può essere carpita solo a spizzichi e bocconi, un pezzo lì e un altro qui, per poi dover ricostruire il tutto nella propria mente. Dal vivo la band non si risparmia e spiattella tutti questi frammenti in faccia al pubblico, che non può far altro che apprezzare il sapore di questa space cake super cremosa.

Famously Alive è il disco più “pop” dei Guerilla Toss, l’album rifinito e curato di un gruppo ormai pienamente maturo e che sa di poter giocare con la propria musica come più gli aggrada; un disco, inoltre, scritto e concepito in piena pandemia ma che nonostante ciò parla di come sia necessario ricominciare a vivere e richiamare a raccolta tutte le proprie energie proprio per sentirsi “magnificamente vivi”. I loro concerti sembrano tramutare questa spinta vitale e rimangono ancora selvaggi, rumorosi, esagerati, nonché i luoghi dove è possibile ritrovare ancora oggi in controluce, fra una bolla acida e l’altra, quell’eredità psych/prog di fine anni ’60/primi anni ’70. Una fantasia scatenata, finalmente, e ve lo dice uno che non si faceva un concerto dal marzo 2020.


P.S. Per la cronaca, Grass Shack è uno dei pezzi più belli e pazzi degli ultimi dieci anni.

La musica sputa sulle classifiche di fine anno

Di solito le testate e i blog che trattano di musica pongono prima delle loro classifiche di fine anno degli articoli introduttivi che, nelle intenzioni, dovrebbero tirare le somme dell’anno musicale appena trascorso. Un modo per tracciare delle mappe orientative su come e dove la musica si sta muovendo, sulle tendenze, i nomi, i trend, i generi e le attitudini che hanno animato i dodici mesi precedenti.
È un’operazione che ha il suo senso, se non altro per una mera questione di memoria storica musicale che a posteriori, poi, potrebbe fungere da archivio (ammesso che non si perda nell’oceano sconfinato della rete). Il problema, però, è che ad ogni occasione si rischia di scrivere sempre le solite cose, tipo: quest’anno è stato molto ricco, quest’anno non sono usciti dischi di rilievo, quest’anno sono rimasto deluso, quest’anno ci sono state poche novità e molte conferme, quest’anno ci sono state molte novità e poche conferme eccetera eccetera eccetera, con minime, se non inesistenti, variazioni sul tema. Insomma, un giochino molto fine a se stesso e che alla lunga diventa stancante (personalmente, quando mi accingo a leggere questo tipo di articoli, salto a piè pari la parte introduttiva e vado direttamente a dare un’occhiata ai dischi delle classifiche). D’altronde, le stesse classifiche di fine anno sono sempre state fine a se stesse; si prova a spacciarle come innocuo esercizio, dei divertissement, ma che, nel contesto di una testata (specie se molto seguita), è tutto fuorché tale, perché indirizza ed orienta già in principio cosa è meritevole di ascolto e cosa no, cosa è meglio e cosa è peggio, cosa sta in cima e cosa in fondo. Si tratta di dividere, separare, dare un valore. Insomma, si tratta di un’operazione molto forte, e chi stila queste classifiche dovrebbe maneggiare la materia molto delicatamente, perché ha una responsabilità enorme nei confronti dei lettori/ascoltatori. Ma questa consapevolezza è ormai completamente messa da parte: le classifiche di fine anno sono diventate un cliché, semplice routine nel piano editoriale di chi si occupa di queste cose, qualcosa che si deve fare perché attira lettori.

Ad ogni modo, la ragione che mi sono dato per cui molti di questi articoli introduttivi sono di una noia mortale (quando va bene) o inutili e ridondanti (quando va male) è molto semplice, ed anche molto banale: viviamo in un’epoca satura di musica di ogni tipo, in cui ogni settimana viene prodotta e messa sul mercato un quantitativo tale che di certo non basterebbero dieci vite per ascoltarla ed assimilarla tutta. Una situazione inedita nella storia culturale dell’uomo, il cui impulso si deve sicuramente anche grazie all’avvento delle nuove tecnologie digitali e musicali messe a disposizione di artisti e pubblico. In questo contesto, anche solo per la legge dei grandi numeri, è assolutamente logico che ci sarà sempre qualcosa di buono e qualcos’altro di meno buono, dischi molto curati e ricercati ed altri meno, conferme, novità, delusioni, capolavori (questa mania della ricerca spasmodica del capolavoro a tutti i costi, poi, che ansia e che tristezza…), banalità, revivals di questo e quello e tanto altro. Quello che molti addetti ai lavori prendono in esame in questi articoli riassuntivi e nelle relative classifiche non è altro che la punta della punta della punta dell’iceberg: in sostanza, il nulla. E il nulla comparano, secondo parametri per lo più imperscrutabili, forse ignoti anche a loro stessi, e se anche fossero noti e ampiamente adottati, sarebbero completamente inutili. E sono anche sicuro (o, per lo meno, voglio pensarlo) che molte di queste persone che si prodigano in tali analisi dove si spendono parole su parole e si spremono neuroni per inventare (per l’ennesima volta) qualcosa di nuovo da dire, sono consapevoli di questo. Se non lo sono, bé, è un bel problema; se lo sono, allora mentono sapendo di mentire.

Ha senso, quindi, concentrarsi su una pozzanghera quando affianco abbiamo l’oceano? Che senso hanno in questo periodo storico le classiche classifiche di fine anno? Non sarebbe più onesto – più sano – ammettere che queste operazioni non sono nient’altro che frutto delle proprie inclinazioni, delle proprie scelte, dei propri gusti? Della propria soggettività, sacra ed inviolabile?
Già li vedo: un coro di SIIII s’alza al cielo, accompagnato da È chiaro È ovvio Ci mancherebbe Grazie al cazzo.
Eh già, grazie al cazzo. Allora io chiedo: se ben sapete che ogni tentativo di razionalizzare lo scibile musicale in classifiche ed elenchi è solo un vano tentativo di ammantare con una pretesa di oggettività ciò che non può essere – di per sé – oggettivo, allora perché continuate a stilare e scrivere queste classifiche e questi articoli? Perché nel XXI secolo proseguite imperterriti in queste sterili operazioni che prendono in giro l’intelligenza di tutti? Liberatevene. Lasciate andare. Il fatto che si sia sempre fatto così non è mai una giustificazione valida. Cercate di essere superiori a questi stupidi giochini delle classifiche: hanno fatto il loro tempo. La musica è una cosa troppo, troppo grande per essere presa in giro in questo modo. Classificare chi è meglio e chi peggio in arte è la più grande mistificazione che l’uomo possa mettere in atto. Un danno enorme, irreparabile, che ci priva di fette importanti di ciò che di più bello ci circonda.
Ma come osate, mi chiedo, salire in cattedra, puntare dita e dire chi va bene e chi no, chi è meglio di chi, affibbiare primi, secondi, terzi, trentaduesimi posti? Ma dico, la musica è per caso una gara ad ostacoli? Certo che no, e chi intende tutta l’arte in questo modo, non merita di goderne neanche per una frazione di un secondo.

Anch’io ho raggruppato gli album che più mi hanno colpito, nel bene e nel male, nel corso del 2021. Li ho suddivisi in playlist, a seconda del MIO grado di apprezzamento, del tutto personale e soggettivo. Non sono classifiche, non rispettano nessun ordine se non quello del puro e semplice piacere dell’ascolto: ad esempio, nella playlist in cui ho messo roba che non mi è piaciuta potreste trovare un artista o un disco che a voi, invece, ha fatto impazzire, e così via per le altre playlist, com’è giusto che sia. La cosa curiosa e divertente è che limitandosi ad elencare senza classificare, tutto ciò che è contenuto in queste playlist non è opinabile e soggetto a qualsiasi possibile critica, cosa che invece puntualmente accade quando una testata musicale pubblica le sue benemerite classifiche, scatenando le più disparate opinioni, valutazioni, pareri e giudizi sui perché e i per come (e perché non c’è tizio al primo posto? e perché avete messo tot posti per la vostra classifica? e perché manca questo e quello? e così via all’infinito, inutilmente). Divertente: proprio ciò che pretende massima oggettività – la classifica – alla fine si rivela essere massimamente soggettiva; al contrario, un semplice elenco in cui sono riportati gusti e preferenze è impermeabile a qualsiasi critica o giudizio. Le due istanze si sono invertite.

Cosa dovrei aggiungere ancora? Dovrei davvero mettermi a scrivere uno di quei cazzo di articoli introduttivi che tirano le somme dell’anno? Cosa dire che non sia già stato detto, sul covid, sul timido ritorno ai concerti subito stroncato dalle impennate dei nuovi casi, sul fatto che produttori ed artisti hanno cercato di puntare più sulle uscite che sui concerti, e quant’altro? L’unica cosa che bisognerebbe sottolineare è che la musica è viva e vegeta nonostante il mondo stia andando sempre più a rotoli, e che non si tributa mai abbastanza gli artisti e i musicisti che ci rendono partecipi dei loro mondi messi in musica; lo stiamo vedendo ora, durante questa emergenza sanitaria, ma il menefreghismo delle istituzioni e di buona parte del pubblico verso il mondo della musica fuori dai circuiti mainstream era già presente ben prima del covid.
Ma la buona musica saprà sempre risplendere, salvare vite e costituire l’anima del tempo, sia esso soggettivo che del mondo. E continuerà a farlo anno dopo anno, passando sopra articoli, classifiche, numeri, streaming, visualizzazioni e al resto del rumore di fondo. Continuamente, per sempre.

Le seguenti playlist sono in continuo aggiornamento. Ascoltare buona parte (qualunque cosa questa espressione significhi) di ciò che esce quotidianamente è un’impresa e gli stessi ascoltatori dovrebbero essere pagati per il loro tempo impiegato in questo sforzo.

MY 2021 – la roba che mi è piaciuta di più uscita nel corso dell’anno

JUST OK/FRIENDZONATI 2021 – Cose belle o solo ok che avrebbero potuto far breccia nel mio cuoricino, ma che per qualche motivo invece no. Ma rimangono comunque molto belle oppure ok

GUILTY PLEASURES 2021 – Cose ascoltate di cui (non) vergognarsi. Ma tutti abbiamo una falsa coscienza e tempo per mentire a noi stessi

NOTE RUBATE ALLA METALLURGIA 2021 – Cose ascoltate durante l’anno che non mi sono piaciute, scusate

Urla, terrore, ansia e raccapriccio, ovvero l’ennesima playlist di Halloween

Ma anche orrore paura follia trauma psicosi paranoia cospirazione massacro assassinio sangue tortura dolore piacere sadismo miseria colpa espiazione manie persecuzione spiriti morte anime dannazione benedizione oscurità luce abisso disordine caos annientamento pazzia resurrezione unione decomposizione perdita odio amore sesso violenza dominio sacrificio corpo danza pulsazione aria terra

Yep, it’s that time of the year again.

Su quarantasei pezzi, solo due hanno come titolo Halloween, e direi che è un buon risultato. Spunta fuori pure della roba rap, giusto per evitare l’equazione Halloween = rock e metal.


Inutile dire che la composizione più spaventosa è quella di Ligeti.
Special guest: Chopin.
Very special guest: Krysztof Penderecki.
Very very special guest: David Lynch, perché si.


E no, mi dispiace ma non c’è il main theme di Halloween né nessun altro pezzo di Carpenter. A dire il vero, il tema del suo film più famoso c’è ma sotto un’altra veste. Premete play e lo scoprirete subito.














(No, non ci sono nemmeno i Ghostbusters)



Raccapricciatevi!

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L’oblio è una benedizione: The Father e The Caretaker, note e immagini in erosione

Nel film The Father la musica ha un suo ruolo, anche se non esattamente preponderante. È leggermente più defilato, come se volesse osservare da lontano la storia di Anthony, un anziano interpretato da Anthony Hopkins e affetto da demenza. Non è tanto alla musica di Einaudi a cui mi riferisco, ma agli estratti delle opere che accompagnano le giornate del protagonista: il terzo atto del King Arthur di Purcell, Casta Diva dal primo atto della Norma di Bellini e la romanza Credo di sentire di nuovo, tratta dal primo atto dei Pescatori di perle di Bizet.
I brani di Einaudi vengono usati nel film soprattutto come temp-track, risultando come mero sottofondo alla vicenda e senza che riescano a creare un legame profondo con la storia o i personaggi; sembrano intenti più a riempire i vuoti fra un’azione e l’altra anziché dialogare con le immagini. Una scelta del genere non è affatto incomprensibile, visto che è molto utile in fase di editing per avere un’idea di come costruire una scena tramite l’ausilio di parti musicali non invadenti. Da questo punto di vista, la musica di Einaudi è estremamente funzionale; il problema semmai è che si è deciso di lasciare a questi pezzi (tutti tratti dal progetto Seven Days Walking del 2019) il compito di costruire un adeguato commento musicale. Che però risulta praticamente inesistente, completamente in sordina.

Tutt’altra storia, invece, per quanto riguarda le arie dalle opere di Purcell, Bellini e Bizet. L’uso che ne viene fatto è mirato a ciò che il film vuole trasmettere, dialogando con la vicenda e mettendosi di fianco al protagonista. Il film lo mostra subito sin dalle scene iniziali, quando, attraverso l’accompagnamento di uno dei brani, introduce Anthony nella storia. Lo stacco sonoro da extradiegetico si fa improvvisamente diegetico, ed ecco che vediamo l’anziano signore seduto nella sua stanza mentre nelle cuffie risuonano le note di Purcell, in un crescendo di tensione più adatto ad un thriller che ad un dramma sulla demenza senile, una contraddizione illuminante che mostra tutta la particolarità dell’opera di Zeller. È la musica che introduce il protagonista, e proprio nel bel mezzo di una delle sue attività preferite, l’ascolto di un disco, uno dei momenti in un cui Anthony ha la possibilità di allontanarsi da tutto e tutti, perfino dalla sua malattia, traendo un po’ di pace e autentico piacere (in un’altra breve sequenza lo si vede che sorride mentre guarda dalla finestra un ragazzino che gioca con una busta trasportata dal vento). La presenza della musica non è qualcosa di secondario nella vita di Anthony, non è un mero passatempo; è più simile ad una medicina che riesce a placarlo e che chiarisce la sua mente, magari facendogli rivivere vecchi ricordi del suo passato. Quando non ha le cuffie posate sulle sue orecchie, l’uomo si trova catapultato in una realtà che gli scivola costantemente di mano, ritrovandosi in balia di eventi che non riesce a comprendere. In due occasioni su tre, Anthony viene interrotto mentre sta ascoltando le arie delle opere, come se il mondo esterno cercasse in tutti i modi di privarlo di quel semplice atto che potrebbe in qualche modo riconnetterlo con se stesso e con la sua labile coscienza. Ma è anche Anthony stesso che blocca volontariamente la musica, quando ad esempio si trova in cucine e dalla sua radio fuoriescono le note della Casta diva: in quel momento non vuole ascoltare, cosa che d’altronde l’uomo fa ripetutamente ogni volta che chiunque gli ricordi di essere malato e bisognoso di aiuto.
È come se la musica riuscisse a ribaltare la logica della malattia invalidante che affligge la sua vita: entrambe lo riducono ad un bambino, ad un essere indifeso e bisognoso di cure, ma la differenza risiede nel fatto che la malattia lo priva di un qualsiasi senso di sé e del mondo, mentre la musica, al contrario, lo aiuta a trovare una via d’uscita. È una fuga, anche se momentanea, verso altrove.


E proprio verso altrove lo trasporta la malattia, erodendo lentamente ed inesorabilmente il senso di realtà circostante. Spazio e tempo sembrano attorcigliarsi l’uno sull’altro – l’uno nell’altro – come un sogno assurdo e surreale. Uno dei modi con cui opera la mente sofferente di Anthony è attraverso la ripetizione: gesti, parole e pensieri rincorrono se stessi e non riescono a trovare uno sbocco per dar vita a conseguenze ed effetti. La mente rimane intrappolata in una gabbia costruita dalla mente stessa, ed è per questo che Anthony non può fidarsi neanche di se stesso, perché man mano che il film avanza altrettanto fa la malattia, diventando sempre più “qualcos’altro”, un’entità “indipendente” dal corpo che la ospita. È in questo modo che essa prende possesso dell’intera vita dell’anziano protagonista, il quale non sarà più tale ma al massimo un co-protagonista: è la demenza, o meglio il processo di graduale decadimento cognitivo, la vera protagonista di The Father. La grandezza di Hopkins non è quella di incarnare un personaggio, bensì una malattia.

La ripetizione, quindi. C’è un momento in cui Anthony sta ascoltando l’aria di Bizet seduto sul divano della sua stanza. All’improvviso, il cd nel lettore inizia a saltare, bloccandosi e ripetendo sempre lo stesso punto. L’uomo allora è costretto a togliersi le cuffie, tirare fuori il cd dallo stereo e ripurirlo per bene. Anche in questo caso la musica entra in contatto con la condizione di Anthony, manifestando in maniera simbolica la reiterazione continua che la demenza comporta. Tanto più un atto, un pensiero o una parola vengono ripetuti, tanto più essi perdono di significato. Perdono di realtà. Vengono svuotati, e così anche la musica che, nonostante sia l’attività preferita di Anthony, si ritrova imbrigliata nello stesso processo degenerativo che erode e consuma.

Questo processo di erosione e reiterazione messo in scena in The Father è riscontrabile anche in Everywhere at the End of Time, opera elettronica monumentale di Leyland Kirby (alias The Caretaker) che, come uno specchio, mette in musica proprio il graduale sviluppo dei sintomi della demenza, in particolare quelli correlati all’Alzheimer. Esattamente come nel film, nelle sei ore e mezza di musica le melodie campionate vengono progressivamente fatte passare attraverso delle fasi sempre più profonde, rappresentative dei vari stadi della demenza. La musica va incontro ad un processo di continua saturazione per cui inizia ad essere avvolta man mano da una nube grigia e spessa che alla fine diverrà la realtà sonora totalizzante di questa mente messa in musica. Le melodie e i frammenti delle composizioni campionate diventano ad ogni fase sempre più irriconoscibili, sempre più disturbati e alterati. La perdita di qualsiasi contatto con il mondo è resa attraverso suoni che vanno e vengono, granulosi, come onde del mare che lavano e cancellano ogni traccia costruita dalla memoria.


Cosa rimane alla fine? Cosa si può trovare alla fine del tempo? Questo schermo grigio, simile a quello di una televisione non sintonizzata, è totalizzante; è annichilente e inquietante perché è la voragine del nulla che si spalanca non sotto di noi, bensì dentro di noi. È il nostro stesso corpo che si autodistrugge, che non vuole più vivere, che vuole allontanarsi dal mondo. Che lo rinnega. È l’allucinante dimostrazione di quanto sia futile e fragile lo sforzo che la coscienza mette continuamente in campo per rendere tutto – l’interno e l’esterno, il sé e il mondo – intellegibile. Le parole allora perdono qualsiasi possibilità di illuminare questo nuovo cammino. Sono completamente inutili. Sbagliate.
Eppure c’è qualcosa di paradossalmente meraviglioso in questo processo di perdita totale. Perdere se stessi e il senso del mondo non può anche essere una benedizione? Niente più paure, desideri, ambizioni, giudizi, necessità. Tutte cose umane, tutte cose che darebbero spinte vitali, se non fosse che comportassero così tanta sofferenza per poterle portare a compimento. Ecco allora che forse la mente sceglie di allontanarsi da tutto, soprattutto da se stessa. Annullarsi diventa una necessità di sopravvivenza, ma anche pace. Sarebbe davvero così spaventoso? Se la memoria è dolore e i traumi sono le sue cicatrici più evidenti, dimenticarsi di ricordare diventa la benedizione ultima.
E la mente potrà ritrovarsi bagnata dalla luce bianca e accecante del sole di primavera, su una spiaggia abbandonata. Suoni lontani, ovattati.
Fruscio del vento fra le verdi foglie degli alberi.
Ombre, e nulla più.

L’amore è una macchina fredda venuta dall’inferno: mutazioni tra Arca e Titane

La protagonista del nuovo film di Julia Ducournau, regista francese che si è aggiudicata la Palma d’Oro nell’ultima edizione di Cannes con il suo Titane, ha una frase tatuata sul petto: “L’amore è un cane che viene dall’inferno”. Chi conosce Bukowski avrà già riconosciuto la citazione, fra le più note del buon vecchio Charles. Sembra una cosa da nulla, uno dei tanti tatuaggi che ricoprono parte del corpo della protagonista, Alexia, quasi un vezzo estetico per caratterizzare ancora di più il personaggio. Eppure, man mano che il film scorre di fronte a noi con il suo turbinio di violenza, umori, silenzi e sguardi, inizia ad assumere un suo significato peculiare e ad illuminare sotto la sua luce obliqua l’intera vicenda.

Perché, in sostanza, ciò di cui Alexia viene privata è un legame d’amore sincero ed incondizionato. Lo si intuisce sin dalle prime scene: la protagonista dimostra già da bambina un precoce attaccamento all’auto nella quale sta viaggiando anziché nei confronti del padre, lontano e indifferente verso la figlia. La placca di titanio che le verrà impiantata nel cranio in seguito all’incidente sarà il suggello di quest’amore mutante fra lei e la macchina, una compenetrazione fra corpo caldo e umano e corpo freddo e meccanico. Un’amore aberrante, fuori dai confini di ciò che è considerato strettamente naturale, e come tale destinato ad essere “maledetto” e rifiutato. D’altronde, la prima cosa che Alexia farà una volta fuori dall’ospedale non sarà quella di baciare i propri genitori, bensì l’auto dell’incidente.

Titane Alexa bambina


Da questo momento in poi, la giovane protagonista, ormai adulta, non farà altro che mettere in scena non tanto la sua “mancanza di umanità” (qualunque cosa questa espressione voglia significare), bensì la propria rinnovata e totale alterità. Critici e giornali si sono concentrati in maniera sensazionalistica sulla sequenza dell’amplesso con l’auto, ma quella parte non è nemmeno la più importante per capire la psicologia della protagonista; è più che altro un momento di passaggio, finalizzato a sottolineare l’ulteriore estraneità di Alexia dai rapporti convenzionalmente accettati. La violenza e gli assassinii di cui si rende protagonista sono sia un modo per proteggersi, magari dalla richiesta insistente di un bacio che alla fine le viene strappato senza il suo consenso o da una famiglia che non l’ha mai realmente accettata, e sia per provare finalmente sensazioni che per lei possano definirsi autentiche. Solo un essere come lei, alterato al punto da emettere olio motore dal proprio corpo, può comprendere la profonda verità del sangue, proprio perché né è quasi completamente priva e perennemente alla ricerca di esso.
Alexia sembra amare il dolore, sia quello provocato sugli altri che su se stessa. Da questo punto di vista Titane è un film molto “concreto”, ovvero riesce a far percepire in maniera diretta ed epidermica il dolore della carne lacerata, sanguinante, battuta. Alexia è una bestia/macchina tutta corpo e sensazioni, ed è proprio attraverso la modificazione del suo corpo che riuscirà alla fine ad instaurare un rapporto profondo – un vero rapporto d’amore – con Vincent, capo di una squadra di pompieri, un improbabile personaggio anche lui lacerato dal dolore per la perdita del figlio.

Il sangue ricorda alla protagonista la sua controparte umana ma, nello stesso tempo, questo istinto assassino che sembra muoverla in maniera cieca è più simile a quello di una macchina fredda e programmata per uccidere; il nero dell’olio che sporca il suo corpo le ricorda immancabilmente la propria controparte macchinica di cui lei stessa ha paura e che sembra non comprendere appieno. In questa apparente dualità trasformativa si esprime la natura di cyborg di Alexia, secondo la teoria queer del Manifesto cyborg di Donna Haraway, una cornice concettuale all’interno della quale Titane si pone immancabilmente e che richiama continuamente. Apparente perché il film, proprio come la Haraway, tende verso una riconciliazione degli opposti umano/macchina in senso positivo, materializzandola in un terzo soggetto non binario che non appartiene completamente né ad un ambito né all’altro, bensì ad entrambi.

Aperta parentesi
lo stesso film è composto da due parti apparentemente contrapposte, proprio come il termine body-horror, genere nel quale Titane è stato inserito anche un po’ forzatamente. Alla Ducournau, infatti, sembra interessare più la parte “body” presente nella seconda metà dell’opera, dove il film assume toni da dramma familiare, mentre la prima parte, quella che è stata fatta risalire all'”horror”, oltre ad essere visivamente più coinvolgente, è solo un pretesto per mettere in scena la protagonista e giocare col senso di spaesamento fra i due frammenti. La bellezza di Titane risiede anche nella messa in scena letterale dell’elemento non binario, grazie alla quale il film si prende molta libertà con i generi, guarda caso proprio come il personaggio di Alexia. Di conseguenza, parlare strettamente o principalmente di body-horror rischia di non rendere piena giustizia all’opera
Chiusa parentesi

Titane auto


Alexia è un soggetto fluido, post-umano, ma non per questo incapace di amare; anzi, come si è accennato in precedenza, è solo attraverso un processo di transizione che Alexia scoprirà di poter intessere legami significativi e addirittura di poter generare nuova vita. Di poter finalmente abbracciare la macchina in modo da renderla innocua perché ormai parte della sua nuova identità. Anche Vincent va incontro ad un trattamento simile: per lui il processo trasformativo rinvia alla debolezza e alla fragilità che risiede oltre la corazza pompata e drogata di certa mascolinità, rappresentata nel film dal piccolo ambiente della caserma dei pompieri, quasi una setta formata da giovani intenti a mostrare i muscoli.
Per entrambi il rapporto d’amore si traduce davvero in trasformazione, ovvero amore che è innazitutto accettazione dell’alterità e comprensione dell’altro, anche quando sembra risiedere in un mondo a noi ostile. In questo modo, entrambi i personaggi riusciranno ad abbandonarsi alla nuova realtà, ed è proprio in quel momento che troveranno la pace. L’amore non è più una creatura infernale ma più che altro qualcosa che è a metà fra inferno e paradiso: una continua messa in discussione e riconfigurazione dei suoi confini.

Ora, trasponiamo tutto ciò che è Titane – Alexia, la sua alterità, la compenetrazione uomo/macchina, la cornice queer e trans-formativa – in ambito musicale. Quale nome potrebbe venir fuori osservando le immagini sullo schermo? Non si andrebbe molto lontano se si citassero alcuni dei nomi afferenti alla corrente dell’industrial e di certa elettronica più sperimentale. Ma al di là di Throbbing Gristle, Foetus o Nurse with Wound e posando lo sguardo sugli ultimi vent’anni, il nome di Arca potrebbe essere quello più adatto a trasporre in musica l’intero apparato filmico e ideologico su cui è costruito Titane. Fra gli artisti contemporanei, Arca è quello che meglio incarna oggi un certo modo di fare musica elettronica che abbia come presupposto teorico proprio la ricerca dell’alterità, nel senso di rifiuto di qualsiasi categorizzazione standardizzata in maniera binaria. Alejandra Ghersi vive completamente l’idea di queerness, proiettandola sia sul suo corpo che sulla sua musica. L’artista infatti si identifica come donna transessuale, e questo elemento non è un semplice un dettaglio o una mera nota biografica: è cruciale, è tutto. È il corpo stesso che per Arca diventa mappa sonica e il fondamento per dare una non-forma ai suoi suoni. Le sue composizioni sono veri e propri corpi sonori che sussultano, si dimenano, irrigidiscono e contorcono perché vivisezionati dal bisturi dell’elettronica. Nella sua musica la violenza è la via che il corpo intraprende per raggiungere la sua verità, intima e profonda, proprio come accade ad Alexia. È un modo per scoprirsi per poi finalmente affermare “soffro, dunque sono”; il tentativo estremo (e quindi extra umano) per cercare di essere quanto più possibilmente autentici a sé stessi. Dal corpo si parte e al corpo si ritorna, ogni volta diversi.


Tutto è manipolabile. Tutto sembra ancora da scrivere e suonare. Quella di Arca è musica non binaria, un flusso sonoro costante e in continuo movimento sul quale sbocciano brevemente piccoli frammenti di melodia, e dove i classici punti di orientamento ritmici e melodici vengono perennemente riconfigurati, proprio come insegnano la scuole avanguardiste di secondo ‘900. Si seguono traiettorie imprevedibili, come fossero tracciate da un’intelligenza artificiale ad alto grado di complessità anziché da un essere umano. Proprio il “tocco umano” viene messo da parte, probabilmente perché ritenuto umano, troppo umano, non adatto a costruire questi nuovi paesaggi dominati da geometrie instabili. Se nei primi due album, Xen e Mutant, l’alterità è spinta al massimo tanto da creare un ambiente altamente artificiale in cui venire immersi, negli ultimi due dischi, Arca e KiCk i, proprio l’elemento umano per eccellenza in musica – la voce – inizia a reclamare i suoi spazi. È proprio qui che uomo e macchina trovano la loro collocazione simbiotica, una riconciliazione che da vita ad una terza via al di là della stessa dualità su cui è impostata gran parte della musica che ascoltiamo: la via del cyborg. Sembra di poter intravedere la stessa natura non binaria che percorre Titane in quanto opera cinematografica mutante, nonché ovviamente il personaggio di Alexia, compenetrazione di umano e di macchina. Il brano Nonbinary, traccia di apertura di KiCk i che visivamente sembra riecheggiare All is Full of Love di Björk, una delle influenze più importanti per la musicista e produttrice venezuelana, suona allora come un manifesto queer aggiornato al XXI secolo, e che avrebbe accompagnato perfettamente alcune delle scene del film, quasi come un videoclip.


La via del cyborg è perfettamente resa in maniera esplicita proprio a partire dalle pubblicazioni degli ultimi anni, come si evince ad esempio dalle copertine di KiCk i e dell’ep @@@@@, quest’ultimo fra le cose più interessanti prodotte da Arca per l’ampia libertà sonora che si concede e per le sperimentazioni in chiave più estrema e pesante per i suoi canoni.

Copertina di KiCk i
La copertina di @@@@@, a metà fra Crash e Mad Max


Proprio sulla cover di @@@@@ troviamo Arca distesa su un auto in un atteggiamento lascivo e sensuale, lo stesso di Alexia nella prima parte del film quando si scatena sulla cadillac durante una convention di appassionati di motori, un ballo esplicitamente erotico col quale si vorrebbe corteggiare la macchina/bestia e che prelude al successivo accoppiamento. In entrambi i casi, la pelle e il corpo si incontrano/scontrano con la durezza del metallo, indicando come il corpo umano sia così facilmente penetrabile da un agente esterno, così facilmente violabile nella sua presunta unità. Il metallo della tecnologia è violenza, contrapposto alla purezza naturale del corpo. Ma ciò che la musica di Arca e le immagini di Titane vogliono esprimere è che questa purezza è solo momentanea e rappresenta solo uno degli infiniti modi di istaurare il nostro rapporto col corpo: sottoponendolo a processi trasformativi, esso rivela nuove verità e spazi ulteriori che riconfigurano le percezioni e quindi il campo del reale.