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Playlist your (awful) life

Le playlist dominano le nostre vite di ascoltatori. Sono ovunque e ce ne sono di qualsiasi tipo: viaggi (in montagna, al mare, in pianura, in campagna, in collina, nello spazio); sport (palestra, arrampicata, trekking, corsa, salto coi sacchi); eventi (matrimoni, compleanni, anniversari, lauree, funerali, quella rimpatriata del liceo che volevate a tutti i costi evitare); mezzi di locomozione (auto, aereo, barca, bicicletta, a piedi, skate, monopattino, triciclo, aliante, tappeto volante); attività quotidiane (respirare, cucinare, scopare, fare il bucato, meditare, lavarsi, studiare, scrivere, leggere, pregare, dormire, rubare, uccidere, portare fuori il cane a pisciare, pestare un merdone puzzolente). Su Spotify ce n’è una dedicata al Ramadan. Per non parlare di quelle dedicate agli umori e alle sensazioni del momento, potenzialmente infinite.

Quelle delle playlist è una moda che ha preso piedi ormai da una decina d’anni, e portata alla ribalta proprio con la diffusione e l’uso sempre più massiccio dei servizi di streaming musicali. A mio avviso, la differenza principale rispetto alle più classiche compilation è che oggi le playlist tendono ad essere sempre più circoscritte: c’è una playlist per qualsiasi cosa. E non si parte tanto dalla musica – la classica compilation di brani preferiti da sparare in macchina, ad esempio – bensì dall’ascoltatore, cioè dall’individuo e dalle sue emozioni, sensazioni, esigenze ed attività particolari. Per quanto ne sia riuscito a capire, al centro della playlist, quindi, c’è l’Io che determina che flusso dare alla musica e la adatta di volta in volta.
Ad una prima occhiata, non sembrerebbe niente di nuovo rispetto alle compilation che si buttavano giù un tempo per rendere più piacevole una qualsiasi attività, tipo appunto un tragitto in auto. Cosa succede però quando la pratica della playlist diviene il modo predominante (soprattutto fra i giovanissimi) per usufruire ed interagire con il linguaggio musicale? Cosa succede quando le piattaforme di streaming ormai alla portata di tutti, appassionati o meno, sfruttano il mezzo della playlist per i loro modelli di business, producendone sempre di nuove e promuovendone il consumo?

Succede che l’esperienza d’ascolto diventa frammentata, oltre che estremamente soggettiva. Credo che la tendenza, per ora non predominante, a puntare più sui singoli o su uscite considerate “minori” (tipo gli Ep di tre o quattro tracce) mettendo in secondo piano l’organicità degli album, sia coincisa nell’ultimo decennio circa con il prepotente emergere delle playlist. È visto come normalizzato l’atto di estrapolare una qualsiasi canzone da un album di 40 minuti e piazzarla in una playlist con altre centinaia di brani che con quel pezzo non hanno nulla a che fare; una cosa del genere, anche solo 20 o 25 anni fa, non sarebbe stata concepibile nell’ambiente mainstream. Questo è stato possibile proprio perché abbiamo accumulato così tanta musica di ogni tipo, di ogni genere, stile, provenienza e tematica che la nostra esperienza è simile a quella della torre di Babele o ad una specie di borgesiano labirinto musicale, una collezione continuamente in espansione che sfugge al nostro controllo e che cresce per inerzia secondo logiche sconosciute. O conosciute solo agli imponderabili algoritmi, i guardiani ai cancelli del regno virtuale che ci mostrano solo la punta dell’iceberg, nascondendoci per lo più quell’intero universo di musica che continua inesorabilmente a svilupparsi.

Succede anche che la musica ascoltata diventa mero oggetto di sottofondo, utile ad accompagnare ogni nostra attività quotidiana. Non si ascolta un brano per la voglia di ascoltare musica in sé: lo si fa perché esso in quel momento svolge un ruolo, ha una funzione determinata dal nostro mood o da ciò che stiamo facendo. Una volta che una playlist finisce, rimane ben poco, se non nulla; l’ascolto non ha conseguenze, non se ne esce diversi, e questo per il semplice fatto che una volta espletata la nostra attività, la musica cessa con essa. Effettivamente, se le cose stanno in questo modo, sarebbe improprio parlare anche di ascolto vero e proprio; è più un sentire, percepire suoni e ritmi deprivati del loro senso e ricomposti secondo il senso che essi assumono per noi. Tengo a sottolineare che non c’è niente di male in questo: si ascolta musica anche solo perché essa fa “compagnia” (mia nonna accendeva la tv non per guardare qualcosa ma perché il vociare ininterrotto dei programmi e della pubblicità le tenevano compagnia), per riempire il silenzio che magari rischierebbe di essere opprimente ed angosciate, per sentirsi meno soli. Perché una parte di noi sa che se mettiamo su un brano, allora tutto ciò che stiamo percependo o facendo in quel momento viene amplificato alla massima potenza, per dargli una forma ben specifica. Una che sia pienamente, irrimediabilmente nostra.

Nulla, assolutamente nulla di sbagliato in ciò. Lo facciamo tutti. Non posso però smettere di farmi la stessa domanda: cosa succede quando questo processo diviene predominante e diffuso su scala globale?

I colossi dello streaming vogliono convincerci che ogni momento è buono per mettere su una playlist: per perdere il contatto con il presente, per rivivere vite passate o per non pensare. In sostanza, per rinchiuderci nella nostra piccola bolla fatta a nostra immagine e somiglianza. Dove niente può farci male, niente può entrare o uscire se non siamo noi a deciderlo. Dove la musica è, alla fine, il vero intruso. E quale miglior momento se non durante una pandemia globale dove i rapporti non virtuali sono estremamente limitati? Spotify, Apple Music e compagnia streaming vogliono convincerci che abbellire in questo modo le nostre vite può renderle più sopportabili, ma chi te lo fa fare a sbatterti per scoprire musica nuova, musica un filo più complessa di quello che passa per la maggiore, guarda qua piuttosto, manda giù questa playlist nuova di zecca, tieni, chiudi gli occhi e passa tutto… Oltre al binge watching abbiamo anche il binge listening.

La vita si sta facendo giorno dopo giorno sempre più assurda, difficile, contorta, improbabile, impossibile. O forse lo è sempre stata ed è semplicemente una questione di prospettive, di tempistiche, di accortezze. Di saper annusare l’aria intorno come fanno i cani. Ci saranno abbastanza playlist per accompagnare questi momenti? E siamo sicuri di voler dare loro un suono? Di renderli reali? Chi vincerà fra l’algoritmo e l’imprevedibile?

Questa è la prima di una serie di playlist completamente inutili. Proprio come le nostre vite.
Playlist your life… and the rest will follow.

Per ascoltare tutti i brani nella loro interezza si suggerisce di aprire la playlist su Spotify, da pc o da cellulare.

Neil Young, cavallo pazzo

Ci doveva pensare un 76enne a smuovere le acque nel mortifero mondo dello streaming digitale. Ci voleva un autore e musicista come Neil Young per provare a far aprire gli occhi alla platea degli ascoltatori casuali, puntando il dito contro la mancanza di responsabilità di un colosso come Spotify e del suo CEO Daniel Ek, il quale, invece che dettare ai musicisti come e quando comporre, farebbe bene a rivedere da cima a fondo la piattaforma musicale di cui fa gli interessi.

Non un nome in voga nelle classifiche; non un esordiente fresco di talent; nemmeno una star internazionale il cui mestiere è la filantropia ma con i conti in qualche paradiso fiscale (qualcuno ha detto Bono?). No, niente di tutto ciò. Ci è voluto quello spelacchiato di Neil Young, basettoni bianchi, occhiaie e pappagorgia, per (ri)mettere sotto i riflettori una verità del nostro tempo, l’assioma portante della civiltà del profitto ad oltranza: che a colossi aziendali come Spotify non frega altamente un cazzo dello stato di salute del mondo. L’importante è fatturare fatturare fatturare! Sempre e comunque. Anche su una pandemia mondiale, sui morti, sulla gente in ospedale, sui disoccupati, sulle famiglie in rovina, sull’esaurimento dilagante, sull’isolamento delle nostre vite. Anzi, soprattutto durante una pandemia, visto che il covid ha fatto crescere ancora di più i colossi del nuovo capitalismo immateriale. I ricchi sono diventati sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.

Perché il buon vecchio Neil ha semplicemente messo queste teste di cazzo nelle condizioni di dover prendere una posizione, finalmente netta e definitiva: o me o Joe Rogan. O la musica o un podcast che nell’ultimo anno ha diffuso disinformazione e teorie del complotto sul covid. Le due cose non possono coesistere su una piattaforma usata da milioni di persone. Attenzione, il musicista non ha preteso che Spotify eliminasse immediatamente The Joe Rogan Experience lasciando invece intatta la sua discografia: se lo avesse fatto, sarebbe stato assai presuntuoso, oltre che alquanto ridicolo ed inefficace. Cosa puoi fare contro un prodotto come il The Joe Rogan Experience che attira in media sugli 11 milioni di ascoltatori al giorno? Contro il podcast più seguito del 2021? E, soprattutto, contro un contratto da 100 milioni di dollaroni stipulato fra il pelatone e Spotify? Una sola cosa: nulla.
O meglio, sputtanarli, magari. Grosse aziende come Spotify, Facebook, Amazon, Apple e compagnia odiano prendere posizione pubblicamente per tutta una serie di ragioni (che poi possono essere riassunte principalmente in una sola: $$$), salvo comunque prendere poi decisioni lontano dai riflettori che automaticamente hanno ricadute sulle vite di miliardi di persone. È per questo che Zuckerberg, ad esempio, sta passando un brutto periodo, scontrandosi con il Congresso negli Stati Uniti che lo torchia sulle sue policies riguardo a disinformazione e fake news. Queste aziende, soprattutto quelle che smerciano in comunicazione come i social e Spotify con i suoi podcast, sanno che tutta quella merda porta cifre con molti zeri. Di conseguenza, non deve stupire che alla fine Spotify ci abbia impiegato tempo zero a decidere chi fra Joe Rogan e Neil Young dovesse lasciare la piattaforma.

Che fosse un gioco “truccato” lo si sapeva sin dall’inizio: nessuno sano di mente – né tanto meno lo stesso Young – si aspettava infatti che Spotify avrebbe rinunciato al suo podcast più remunerativo per i sei milioni di ascoltatori mensili dell’autore di Harvest. Così come non ci sarebbe neanche bisogno di tirare in ballo il podcast di Joe Rogna Rogan fra i principali motivi per abbandonare la piattaforma svedese: la bassa qualità audio offerta e il misero introito a streaming per gli artisti bastano e avanzano per sfanculare su Marte Daniel Ek e i suoi miliardi guadagnati sulle spalle degli artisti, soprattutto i più piccoli. Per lo meno Neil Young ha fatto la sua mossa mentre tutti gli altri facevano finta di guardare dall’altra parte, mettendoci la faccia e, come specificato in uno dei suoi comunicati, rimettendoci pure una discreta percentuale di guadagno dai suoi streaming, visto che solo i grossi nomi riescono a racimolare qualcosa dalle piattaforme musicali. L’aspetto economico può essere uno degli elementi che frenano personaggi oggi ben più noti di Neil Young dal rivoltarsi contro l’azienda svedese: gente come The Weeknd, Taylor Swift, Justin Bieber o Adele usano Spotify per meglio promuovere la loro musica, raggiungendo un target giovanissimo di ascoltatori che usufruisce costantemente delle piattaforme di streaming. La loro immagine e il loro successo è legato a doppio filo alla musica digitale. Proprio questi grossi nomi sarebbero quelli che potrebbero davvero mettere Spotify in difficoltà: se non lo fanno è perché alla fine non vogliono rischiare.

Ma non è una questione esclusivamente economica, né generazionale (tanti artisti della stessa generazione di Neil Young non si sono espressi, per lo meno non in questo modo). Fama, immagine, obbligazioni contrattuali che legano le mani agli artisti e convinzioni personali possono concorre insieme portando all’immobilismo. Il povero David Crosby, ad esempio, vorrebbe seguire l’esempio del suo ex compagno di band ma, semplicemente, non può.
Alla luce di queste considerazioni e di tante altre che possono essere fatte, la scelta di Neil Young – e di quell’altra dea di Joni Mitchell che ha deciso di seguire subito la stessa strada del suo collega – di prendere posizione e, soprattutto, di forzare la mano con un colosso come Spotify, assume un valore molto importante e particolare. A mia memoria, non ricordo un nome noto del genere che in tempi recenti abbia cercato di boicottare uno di questi padroni 2.0 del mondo, andando anche contro i propri interessi. È casuale che una mossa del genere venga proprio da due protagonisti della controcultura americana degli anni ’60 e ’70? A mio avviso no, segno che un certo tipo di cultura e visione del mondo è stata purtroppo marginalizzata.

I settantenni sono più ribelli dei ventenni (e si mantengono pure meglio, va che signora la Mitchell!)

Questa storia avrà un seguito? Chi lo sa. Intanto all’indomani del boicottaggio di Neil Young, Spotify ha perso quotazioni in borsa, un trend che va avanti da un po’ di tempo a questa parte. Altri artisti oltre alla Mitchell hanno seguito l’esempio del musicista americano, così come anche alcuni autori di podcast. Personalmente non credo che Spotify arriverà in tempi brevi ad una revisione strutturale sia sul lato del controllo sui contenuti pubblicamente pericolosi che sugli aspetti audio e finanziari per gli artisti. Solo se un numero sufficiente di artisti, musicisti e autori prenderà posizione su queste questioni, andando a colpire lì dove queste aziende sono più deboli, cioè il portafoglio, allora qualcosa potrebbe cambiare. E non dipende inoltre solo dai creatori di contenuti, bensì anche dai fruitori, dal pubblico.

Forse vedremo i frutti di questa vicenda solo più in là oppure non li vedremo affatto. Neil Young ha esagerato? Si pentirà e tornerà sui suoi passi? Per ora non possiamo saperlo, di certo sappiamo però che c’è ancora qualcuno che getta il sasso in questo stagno immobile per smuovere un po’ le acque. Neil Young ci avrà perso dei soldi e la possibilità di farsi ascoltare da qualche giovane (rimane comunque presente sulle altre piattaforme di streaming), ma è importante che un nome storico e noto come il suo abbia alzato questo polverone ed innescato una maggiore consapevolezza.

Insomma, il solito vecchio cavallo pazzo.
Oh, sempre meglio che rincoglionirsi completamente come Eric Clapton!