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Il campionato musicale Boomers vs Millennials ha rotto il cazzo

Viviamo in tempi terribili e allucinanti, e no, non mi riferisco solo al fatto che i propri tweet e post sui social possano diventare di tendenza a nostra insaputa nel giro di pochi minuti rovinandoci la vita, alla prospettiva dell’annichilimento ambientale o che ci sia effettivamente gente che considera i carlini dei cani meravigliosi. La presunta battaglia fra boomers e millennials è uno degli ultimi prodotti di una cultura che pone persone e generazioni gli uni contro gli altri, quando i problemi sistemici attuali che affliggono la società e il mondo interessano tutti, e da tutti quindi andrebbero affrontati. Ovvio che ci sia anche una percentuale di cazzeggio e di aspetto ludico in questa faccenda dei boomers contro i millennials e viceversa; così come anche è giusto che le nuove generazioni cerchino di rimarcare le differenze da quelle passate per ricercare una propria identità. Ma a mio avviso tutta la questione è un po’ sfuggita di mano, amplificata, rinforzata e diffusa come al solito dai media, social in primis. Si dimentica che c’è del buono e del cattivo in entrambe le categorie: non serve a niente sparare frasi fatte del tipo “i giovani di oggi sono pigri, senza valori e abituati ad avere tutto e subito” se poi proprio tu, boomer, rimani attaccato come una cozza ai tuoi privilegi (magari immeritati) ed hai instillato nei tuoi figli (millennials, guarda caso) il culto del consumismo e dell’edonismo per poter fare bella figura in società; così come non serve altrettanto a nulla deridere gli stessi boomers accusandoli di essere insensibili, egoisti e dalla mentalità chiusa, se poi te, millennial, preferisci fare la parte della vittima sui social senza invece organizzarti, protestare e combattere contro ciò che ritieni che non vada bene.

Insomma, il problema come al solito è fare di tutta l’erba un fascio, quando invece razionalità vorrebbe che ci fosse un minimo di discrimine per meglio comprendere fenomeni, situazioni ed eventi. Ma siamo tutti stanchi, magari poveri come la merda ed anche alquanto incazzati, e fa sempre comodo prendersela con gli altri per tutto ciò che non va nella nostra vita. E poi sappiamo bene che le analisi sociologiche non funzionano nell’odierna epoca della (mancata) comunicazione, di certo non attirano like e condivisioni quanto invece potrebbero fare una frasetta ad effetto o un memimo creati per ricevere attenzioni dalla propria cerchia sociale.

Tutto questo inutile panegirico per ricordare un altro aspetto a mio avviso interessante: la dissonanza cognitiva tramite la quale l’industria culturale cerca di farci vivere vite non nostre riesumando prodotti culturali del passato, dalla musica al cinema, dalla moda alla letteratura, soprattutto quelli degli anni ’70/’80/’90 (e si iniziano a riciclare pure i primi anni 2000). Parlo di dissonanza perché da una parte si alimenta l’insensata guerra “Boomers vs Millennials” dove le due parti in causa cercano di prendere le distanze le une dalle altre; nello stesso tempo però si fa di tutto per rievocare un passato mitico – anzi, mitizzato – sbattendo in faccia alle generazioni contemporanee mondi che non appartengono a loro (ma che ben infiocchettati e venduti possono sempre far presa, vedi un caso clamoroso come Stranger Things) ed impedendo quindi all’immaginario collettivo di assumere nuove ed imprevedibili forme. Eppure di roba nuova da raccontare ce ne sarebbe a bizzeffe, solo che all’industria culturale contemporanea interessa solo tirare a campare e mantenere in piedi l’intero baraccone, e quindi giù di remake, reboot, revival, rifacimenti, riesumazioni, citazioni e via dicendo. Un millennials o un appartenente alla Generazione Z che fa binge watching su Stranger Things o sull’ennesima serie con ambientazione anni ’90 non suona un po’ strano? O il fatto che un pezzo come Running Up That Hill (A Deal with God) ritorni in classifica dopo ben trentasette anni? Fa ovviamente molto piacere che un’artista enorme come Kate Bush faccia di nuovo parlare di sé, ma nello stesso tempo è impossibile non notare come almeno negli ultimi dieci anni la retromania abbia quasi completamente dominato il panorama culturale odierno. L’ambito musicale mainstream è stato particolarmente interessato dal revivalismo. I Maneskin, sotto questo punto di vista, sono il prodotto perfetto perché riescono a capitalizzare sia la nostalgia dei boomers, coprendo con la loro musica e l’immaginario di riferimento un periodo molto vasto che va dai ’70 ai primi anni ’90, e sia la voglia di melodie facili del pubblico generalista e che ammiccano ai gusti dei millennials.

Kate Bush che mira ad un assegno a sei zeri dopo essere finita in Stranger Things


Avevamo davvero bisogno del ritorno di Avril Lavigne (mentre lo scrivo stento a crederci io stesso…), una quasi quarantenne che gioca ancora a fare l’adolescente come all’epoca di Sk8ter Boi? E che dire di ritrovati bellici che sembravano ormai sepolti dal tempo come i Gazosa? Tutte queste operazioni commerciali giocano sull’effetto nostalgia perché è molto più facile promuovere ciò che già si conosce invece che puntare e rischiare su nomi nuovi e freschi. CEO e presidenti di compagnie quotate in borsa blaterano sull’importanza di investire per offrire ai consumatori prodotti di qualità, quando invece la realtà è solo una: fare cassa. Zero coraggio, zero rischio, zero opportunità. Con effetti alla fine paradossali e con un generale impoverimento per le masse e per chi davvero tiene alla musica di qualità, la quale viene relegata giorno dopo giorno nei circoli underground.

Le attuali generazioni vivono immersi quindi in questa dissonanza – attrazione che diventa feticizzazione per i prodotti musicali del passato, rifiuto di una buona parte di quella visione del mondo plasmata dagli ultimi sessant’anni. Ovviamente l’attrazione non è verso tutta la musica del passato (sarebbe alquanto strano) ma solo verso ciò che meglio può essere riadattato al presente vissuto da millennials e Gen Z. Per questo Rolling Stones può buttare giù un articolo in cui fa un elenco di alcuni dischi amati dai boomers ma ignorati dai millennials. Il titolo è chiaro: “40 album amati dai baby boomers e sconosciuti ai millennials”. L’accento, come spesso accade, è sulla presunta ignoranza musicale delle nuove generazioni verso ciò che concerne le vecchie. Assai raramente avviene il contrario. Perché non ci si domanda se anche i boomers conoscono i dischi che piacciono ai millennials? Perché il passato deve essere sempre considerato più importante del presente? Mi sembra che lo snobbismo musicale sia più marcato nelle vecchie generazioni anziché nelle nuove. Musicalmente parlando, boomers e Generazione X hanno fra loro molto più in comune che con millennials e Gen Z – c’è molta più “affinità” fra Led Zeppelin e Nirvana che fra Marilyn Manson e Billie Eilish – ma questo non giustifica il fatto che ancora oggi debba persistere una certa idea di superiorità culturale del passato musicale nei confronti del presente. Forse è anche per questo che il revivalismo è una corrente molto forte nell’industria musicale odierna: il mito di un’età dell’oro che bisogna continuamente alimentare e tenere ben salda di fronte ai nostri occhi. Bisognerebbe invece andare al di là di queste inutili contrasti: ne guadagneremmo tutti, vecchie e nuove generazioni, perché di musica interessante, capace di aprire mondi sonori inimmaginabili, ce n’è ancora tantissima.
Cinquant’anni fa come l’anno scorso.

Mi permetto allora di provare a stilare alcuni dei dischi amati dai millennials e che, forse, le vecchie generazioni non conoscono. Ho lasciato fuori i nomi grossi – Radiohead, Beyoncé, Kanye West fra i tanti, giusto per capirci, anche se ho voluto includere Billie Eilish perché giovanissima e ancora con tanto potenziale da sfruttare – prediligendo nomi di culto ma che hanno lasciato comunque la loro impronta negli ultimi vent’anni di musica. Inutile dire che è una lista estremamente parziale (e che magari aggiornerò, chi lo sa). I boomers ne facciano quello che vogliono: magari scopriranno che ci sono molti più punti in comune con i loro gusti che differenze.

Godspeed You! Black Emperor – Lift Your Skinny Fists Like Antennas to Heaven (2000)

MF Doom – Madvillainy (2004)

Gorillaz – Demon Days (2005)

M.I.A. – Arular (2005)

Burial – Untrue (2007)

Sunn O))) – Monoliths & Dimensions (2009)

Flying Lotus –
Cosmogramma (2010)

Xiu Xiu – Dear God, I Hate Myself (2010)

Bon Iver – Bon Iver (2011)

Death Grips – The Money Store (2012)

Frank Ocean – Channel Orange (2012)

Arca – Mutant (2015)

Tyler, The Creator – Cherry Bomb (2015)

Sophie – Oil of Every Pearl’s Un-Insides (2018)

JPEG Mafia – Veteran (2018)

FKA Twigs – Magdalene (2019)

Poppy – I Disagree (2020)

Billie Eilish – Happier Than Ever (2021)

Playlist your (awful) life

Le playlist dominano le nostre vite di ascoltatori. Sono ovunque e ce ne sono di qualsiasi tipo: viaggi (in montagna, al mare, in pianura, in campagna, in collina, nello spazio); sport (palestra, arrampicata, trekking, corsa, salto coi sacchi); eventi (matrimoni, compleanni, anniversari, lauree, funerali, quella rimpatriata del liceo che volevate a tutti i costi evitare); mezzi di locomozione (auto, aereo, barca, bicicletta, a piedi, skate, monopattino, triciclo, aliante, tappeto volante); attività quotidiane (respirare, cucinare, scopare, fare il bucato, meditare, lavarsi, studiare, scrivere, leggere, pregare, dormire, rubare, uccidere, portare fuori il cane a pisciare, pestare un merdone puzzolente). Su Spotify ce n’è una dedicata al Ramadan. Per non parlare di quelle dedicate agli umori e alle sensazioni del momento, potenzialmente infinite.

Quelle delle playlist è una moda che ha preso piedi ormai da una decina d’anni, e portata alla ribalta proprio con la diffusione e l’uso sempre più massiccio dei servizi di streaming musicali. A mio avviso, la differenza principale rispetto alle più classiche compilation è che oggi le playlist tendono ad essere sempre più circoscritte: c’è una playlist per qualsiasi cosa. E non si parte tanto dalla musica – la classica compilation di brani preferiti da sparare in macchina, ad esempio – bensì dall’ascoltatore, cioè dall’individuo e dalle sue emozioni, sensazioni, esigenze ed attività particolari. Per quanto ne sia riuscito a capire, al centro della playlist, quindi, c’è l’Io che determina che flusso dare alla musica e la adatta di volta in volta.
Ad una prima occhiata, non sembrerebbe niente di nuovo rispetto alle compilation che si buttavano giù un tempo per rendere più piacevole una qualsiasi attività, tipo appunto un tragitto in auto. Cosa succede però quando la pratica della playlist diviene il modo predominante (soprattutto fra i giovanissimi) per usufruire ed interagire con il linguaggio musicale? Cosa succede quando le piattaforme di streaming ormai alla portata di tutti, appassionati o meno, sfruttano il mezzo della playlist per i loro modelli di business, producendone sempre di nuove e promuovendone il consumo?

Succede che l’esperienza d’ascolto diventa frammentata, oltre che estremamente soggettiva. Credo che la tendenza, per ora non predominante, a puntare più sui singoli o su uscite considerate “minori” (tipo gli Ep di tre o quattro tracce) mettendo in secondo piano l’organicità degli album, sia coincisa nell’ultimo decennio circa con il prepotente emergere delle playlist. È visto come normalizzato l’atto di estrapolare una qualsiasi canzone da un album di 40 minuti e piazzarla in una playlist con altre centinaia di brani che con quel pezzo non hanno nulla a che fare; una cosa del genere, anche solo 20 o 25 anni fa, non sarebbe stata concepibile nell’ambiente mainstream. Questo è stato possibile proprio perché abbiamo accumulato così tanta musica di ogni tipo, di ogni genere, stile, provenienza e tematica che la nostra esperienza è simile a quella della torre di Babele o ad una specie di borgesiano labirinto musicale, una collezione continuamente in espansione che sfugge al nostro controllo e che cresce per inerzia secondo logiche sconosciute. O conosciute solo agli imponderabili algoritmi, i guardiani ai cancelli del regno virtuale che ci mostrano solo la punta dell’iceberg, nascondendoci per lo più quell’intero universo di musica che continua inesorabilmente a svilupparsi.

Succede anche che la musica ascoltata diventa mero oggetto di sottofondo, utile ad accompagnare ogni nostra attività quotidiana. Non si ascolta un brano per la voglia di ascoltare musica in sé: lo si fa perché esso in quel momento svolge un ruolo, ha una funzione determinata dal nostro mood o da ciò che stiamo facendo. Una volta che una playlist finisce, rimane ben poco, se non nulla; l’ascolto non ha conseguenze, non se ne esce diversi, e questo per il semplice fatto che una volta espletata la nostra attività, la musica cessa con essa. Effettivamente, se le cose stanno in questo modo, sarebbe improprio parlare anche di ascolto vero e proprio; è più un sentire, percepire suoni e ritmi deprivati del loro senso e ricomposti secondo il senso che essi assumono per noi. Tengo a sottolineare che non c’è niente di male in questo: si ascolta musica anche solo perché essa fa “compagnia” (mia nonna accendeva la tv non per guardare qualcosa ma perché il vociare ininterrotto dei programmi e della pubblicità le tenevano compagnia), per riempire il silenzio che magari rischierebbe di essere opprimente ed angosciate, per sentirsi meno soli. Perché una parte di noi sa che se mettiamo su un brano, allora tutto ciò che stiamo percependo o facendo in quel momento viene amplificato alla massima potenza, per dargli una forma ben specifica. Una che sia pienamente, irrimediabilmente nostra.

Nulla, assolutamente nulla di sbagliato in ciò. Lo facciamo tutti. Non posso però smettere di farmi la stessa domanda: cosa succede quando questo processo diviene predominante e diffuso su scala globale?

I colossi dello streaming vogliono convincerci che ogni momento è buono per mettere su una playlist: per perdere il contatto con il presente, per rivivere vite passate o per non pensare. In sostanza, per rinchiuderci nella nostra piccola bolla fatta a nostra immagine e somiglianza. Dove niente può farci male, niente può entrare o uscire se non siamo noi a deciderlo. Dove la musica è, alla fine, il vero intruso. E quale miglior momento se non durante una pandemia globale dove i rapporti non virtuali sono estremamente limitati? Spotify, Apple Music e compagnia streaming vogliono convincerci che abbellire in questo modo le nostre vite può renderle più sopportabili, ma chi te lo fa fare a sbatterti per scoprire musica nuova, musica un filo più complessa di quello che passa per la maggiore, guarda qua piuttosto, manda giù questa playlist nuova di zecca, tieni, chiudi gli occhi e passa tutto… Oltre al binge watching abbiamo anche il binge listening.

La vita si sta facendo giorno dopo giorno sempre più assurda, difficile, contorta, improbabile, impossibile. O forse lo è sempre stata ed è semplicemente una questione di prospettive, di tempistiche, di accortezze. Di saper annusare l’aria intorno come fanno i cani. Ci saranno abbastanza playlist per accompagnare questi momenti? E siamo sicuri di voler dare loro un suono? Di renderli reali? Chi vincerà fra l’algoritmo e l’imprevedibile?

Questa è la prima di una serie di playlist completamente inutili. Proprio come le nostre vite.
Playlist your life… and the rest will follow.

Per ascoltare tutti i brani nella loro interezza si suggerisce di aprire la playlist su Spotify, da pc o da cellulare.

Radio a Sonagli – Aprile 2022

Il tempo per ascoltare tutto ciò che si vorrebbe è sempre meno, accerchiato, ridotto e spremuto come un limone marcio fra le duemila inutili cose che la cosiddetta realtà pretende da noi. Non c’è tempo per nulla, per ascoltare, capire, analizzare, comprendere, usare il cervello ed eventualmente decidere pure di lanciarlo dal terzo piano. Non c’è tempo per decidere. Non c’è tempo per decidere perché sembra tutto già deciso. Da chi? Da cosa? Ognuno potrà spuntare la casella che più ritiene opportuna dal proprio taccuino dei rimpianti e dei buoni propositi rinviati a miglior tempo. Potessimo almeno guardarci allo specchio e scorgere qualcosa…

Il nuovo disco dei GGGOLDDD si guarda allo specchio e dichiara con un sussurro una verità semplice, chiara e limpida, e proprio per questo sconcertante e dolorosa: questa vergogna non dovrebbe essere mia. Chi me l’ha appiccicata addosso? Perché questo olezzo disgustoso che proviene dalla mia pelle? È quella condanna che va sotto il nome di senso di colpa, un marchio vecchio come il mondo e l’universo, anzi no, mondo e universo sono privi di colpa e quindi di senso di colpa, sono meravigliosi e splendenti come il sole che si irradia in una luce bianca e la luna che smuove le maree e che continueranno a farlo per chissà per quanti miliardi di anni, fino a quando quell’enorme lampadina lassù non scaricherà definitivamente le sue batterie. Ed allora anche il senso di colpa – vecchio come l’essere umano, questo si – scomparirà inghiottito dall’ombra eterna della notte, finalmente coperto da un lenzuolo come un freddo cadavere. Colpa, senso di colpa, condanna, controllo ed espiazione: stupidi concetti creati ad arte da uomini ciechi e vuoti per far sentire indifesi chi invece vorrebbe soltanto essere una piccola cosa libera e dal cuore semplice, e che verranno risucchiati in un attimo dal sole nero della notte, neanche dimenticati perché non potrà neppure esserci il ricordo. Violenza e sopraffazione, in tutte le sue forme, saranno azzerate, tutto sarà ridimensionato, ripensato, ricollocato ad una scala infinitamente più piccola; donne che hanno conosciuto questa vergogna indicibile per mano di uomini che si sono creduti Dio – ma piccoli come bambini – potranno finalmente trovare un po’ di pace, farsi aria, nuovo ossigeno, nuova terra, nuova erba, nuovi alberi, nuove nuvole, nuovi pianeti e nuovi soli. Nuova vita. Altrove, ovunque.

I didn’t see it coming

I shed some light on the ferocious complexity

I want the smell to leave me

I wanna shower till my skin comes off

Il resto è appunto vita musicale che scorre in rivoli chiaroscuri. Possono farsi turbolenti e torbidi, come l’ultimo degli Immolation, una dichiarazione di guerra e di rivolta contro Dio e i suoi profeti in buona e cattiva fede, anche lui invocando il sole nero dell’ultima notte, o, ancora, l’album omonimo di Corpsegrinder, che detta il ritmo possente dei tamburi della guerra prossima ventura e di quelle già in corso; fluidi e multicolore, come le canzoni dei Guerilla Toss, che più che canzoni sono deliri e visioni tossiche, ma di quella tossicità buona, dolce, che appanna i soliti cinque sensi per farne emergere altri dieci di cui non si conosce l’esistenza, fra cui quello che consente di vedere proiettate nella mente di chi ascolta le onde sonore della nostra voce e di surfare su arcobaleni multicolore per sentirsi (finalmente) vivi; freddi e glaciali come i tappeti sonori dei Cannibal Ox di The Cold Vein, nonché messianici come quel monolite impenetrabile di Irrlicht di quell’essere metà uomo e metà macchina proveniente dalla galassia Moog Klaus Schulze, entrambi robot deliranti, errori nelle equazioni che non dovrebbero esistere, e che tuttavia rivelano un’umanità più profonda dell’umano stesso, il bagliore dietro agli occhi di metallo dell’automa di Metropolis, un nuovo Big Bang esploso dalle frequenze degli eterni sintetizzatori al centro dell’universo; algidi e sinuosi, un gelato alla panna jazz con praline soul e r’n’b dal nome Tinted Shades da quel genietto di Joe Armon-Jones insieme alla voce delicata come il vetro di Fatima, e accecanti come una luce che lentamente si dischiude proprio al centro della stanza, un’apparizione che lascia intravedere l’altra parte dello specchio – Pang di Caroline Polachek, anche lei metà essere umano e metà macchina, ma perfezionata e portata a punto per l’umanità prossima futura, un essere polimorfo dalle profondità oceaniche che ricorda tutto, anche ciò che non ha mai veramente vissuto come gli anni ’80 di Songs from the Big Chair dei Tears for Fears, un oggetto musicale, questo, che riesce a scrollarsi di dosso la polvere accumulatasi in più di trent’anni di storia ad ogni ascolto, perfetto, rotondo, brillante, con un piede nel suo tempo e un piede altrove (e che, come i ricordi più belli o i traumi, riappare lì dove meno te lo aspetti, vedere alla voce Eat the Elephant degli A Perfect Circle).

Finché poi tutto – l’ascoltato e l’inascoltato, l’ascoltabile e l’inascoltabile – non verrà ancora una volta inghiottito dalla notte eterna del sole nero. Rimarrà solo Sirio a risplendere dalla Terra, mentre gli ultimi uomini guarderanno il cielo chiedendosi quale sia il luogo dove le stelle nere sono ancora appese.

Nessun noi, solo io: Marracash e il grande abbaglio

Che certo giornalismo musicale italiano sia completamente allo sbando non suonerà di certo come una novità; se si tiene conto, poi, il contesto nel quale opera al giorno d’oggi, sembra davvero impossibile poter fare un’informazione musicale corretta, contestualizzata, interessante ed equilibrata. Il mondo della comunicazione è schiacciato da processi sempre più grandi e veloci, fra cui una lotta continua per ottenere sempre maggiore visibilità e la forsennata saturazione della scena musicale che non lascia il tempo di digerire adeguatamente alcunché. Finisce un anno, si tirano le somme e via di nuovo da capo, come un ruota che gira da sola senza nemmeno l’apporto del classico criceto. È il mondo intero che ormai funziona così, non solo quello musicale, con tutti i pro e i contro del caso, ma mi stupisco sempre di meno nel vedere che in giro aleggia sempre più stanchezza fra le persone e un senso generale di sfinimento, come un corridore che non ce la fa più o un naufrago che cerca di rimanere a galla in mezzo ad un mare in tempesta. Bombardati da stimoli ventiquattrore su ventiquattro, sette giorni su sette, con smartphone e tablet sempre a portata di mano, rifuggiamo la complessità per ritirarci nelle nostre micro bolle, spazi sacri dove trovare conforto e poter ricomporre il profilo del mondo a nostra immagine e somiglianza. È lì che tiriamo un sospiro di sollievo perché è lì che ci sentiamo al sicuro. E non è nemmeno una questione di “saperi”, di “capacità” e “formazioni individuali”: il sapere si è infranto in mille rivoli ed è inteso in maniera così specialistica che anche chi cerca di informarsi adeguatamente alla fine sente sempre quel senso di sopraffazione montare al suo interno. La disorientante sensazione di essere seduto in un treno lanciato a 400 km/h la cui meta è completamente ignota. O forse solo destinato a girare in circolo, per sempre, fino a quando non deraglierà nel baratro sottostante.

Non so cosa possa c’entrare questa introduzione con l’ultimo disco di Marracash, Noi, loro, gli altri. O meglio, con alcuni giudizi letti in giro per la rete che definire glorificanti è dire davvero poco. È stato scomodato De André, e sarebbe solo un’operazione per attirare l’attenzione verso l’articolo se non fosse che proviene da una delle riviste italiane capace di creare hype anche intorno ad un lavandino gocciolante. Marracash è stato appellato come intellettuale per il suo presunto tentativo di raccontare il presente. Noi, loro, gli altri è stato indicato come il nuovo La morte dei miracoli di questo decennio. Giudizi esagerati, parole fuorvianti, un’idea del disco in questione che sembra più urlata e accecata dalla meraviglia che prodotta dal reale riscontro con la musica.
Qui il problema non è Marracash o il suo ultimo disco, che è probabilmente ciò che di meglio il mainstream italiano ha da offrire al momento in ambito rap-pop: pezzi solidi, produzione curata, paraculate si ma limitate. Il problema è ciò che si vede nell’album, quello che vorremmo che sia ma che in realtà non è: un testamento intellettuale, una visione critica sul presente, un disco di rottura. Personalmente non so se Marracash si senta come un novello Pasolini o un Durkheim del XXI secolo, ma ciò che certa stampa italiana ha cercato e sta cercando ancora di fare è quello di proiettare le proprie aspettative su questo disco (e automaticamente sul suo autore) in modo da poter fare alla fine ciò che le riesce meglio: vendere un prodotto.

Dove sarebbe lo sguardo critico in Noi, loro, gli altri? Uno sguardo di questo tipo implica sostanzialmente due cose: una certa distanza da ciò che si vorrebbe analizzare e una messa in discussione dei presupposti dell’oggetto preso in esame. Ora, nel nuovo album di Marracash questi due elementi sono assenti e quando cercano di venir fuori vengono immediatamente fatti rientrare nel recinto di una visione normalizzante, superficiale ed anche qualunquista. Marracash non predica violenza, non cerca vendetta e non ha l’aria da sbruffone che gioca a fare il gangster; all’apparenza ha un tono più dimesso – da adulto, come detterebbe la narrazione di Rolling Stones & co. – ma in realtà i suoi versi covano ancora al loro interno una voglia di auto imposizione sugli altri tipica di certo rap più stradaiolo e sopra le righe. Nelle sue nuove canzoni si critica tutto e tutti, ovvero niente, e non si critica niente per il semplice fatto che il vero scopo in Noi, loro, gli altri non è quello di mettere alla berlina potenti, ipocrisie e mal costume generale – obiettivo primario, al contrario, di un lavoro profondamente politico come La corte dei miracoli di Frankie HI-NRG – ma potersi mettere ancora una volta sotto i riflettori per urlare quanto si è puri, sinceri, autentici. Insomma, migliori di tutti gli altri, anche lì dove si scambia l’autocommiserazione per fragilità, vestendo il proprio egocentrismo con toni tragici e lacrimevoli come in Dubbi.


Basta davvero mettere una citazioncina di Mark Fisher a fine pezzo – una frase ormai talmente tanto sputtana da essere assimilata a quelle dei Baci Perugina – per essere considerati grandi intellettuali? Detta poi da uno che ha sempre esaltato un certo stile di vita edonista fatto di soldi, auto e donne. Per i rapper come Marracash, eliminare le differenze sociali (qualunque cosa possa significare) il più delle volte significa semplicemente fare più soldi possibile per entrare a far parte di quella fascia sociale più ricca che non fa altro che alimentare ulteriori differenze sociali. È solo rivalsa.
Pagliaccio e Cosplayer, ad esempio, non sono nient’altro che delle perculate continue nei confronti di chi, secondo il rapper, si cala la sua maschera pubblica cercando approvazione per mettersi in mostra. Ma guarda un po’! È la stessa cosa che fa Marracash nel momento in cui veste i panni del cattivo di turno urlando NON AVREI PAURA DI VOI NEMMENO SE FOSTE DAVVERO ARMATI! VOLETE FARE LA GUERRA CON ME? FATE LA GUERRA CON IL PIU’ FORTE! Insomma, solito, vecchio, ultra contemporaneo individualismo.

Marracash spara continuamente a zero nella mischia, confondendo tutto e il contrario di tutto e non lasciando mai capire contro chi o cosa realmente vorrebbe scagliarsi. In questo modo però non si fa nessuna critica, bensì solo ragionamenti da bar, affettati e superficiali, che permettono inoltre di partorire banalità qualunquiste di questo tipo:

Oggi che possiamo rivendicare di essere bianchi, neri, gialli, verdi
O di essere cis, gay, bi, trans o non avere un genere
Non possiamo ancora essere poveri
Perché tutto è inclusivo a parte i posti esclusivi, no?
Oggi che tutti lottiamo così tanto per difendere le nostre identità
Abbiamo perso di vista quella collettiva
L’abbiamo frammentata
Noi, loro e gli altri
Noi, loro e gli altri
Persone

E qui ci starebbe un enorme, mastodontico ESTICAZZI!? La lotta per il riconoscimento delle minoranze non eterosessuali e non bianche viene confusa con le polemiche reazionarie ed identitarie, il narcisismo da social equiparato alle voci di chi davvero avrebbe qualcosa da dire e da denunciare, e così via in un continuo turbinio dove tutti interpreterebbero una parte. Fenomeni ed eventi di natura differente e che meriterebbero gli opportuni distinguo ed una sensibilità, questa si, critica vengono messi insieme in un magma indistinto. Tutto è ridotto ad un semplice gioco di maschere: non c’è un sopra o un sotto, tutto è smussato e messo sullo stesso livello per poter essere criticato. Invece di indagare le motivazioni politiche e sociali di tali spinte al riconoscimento, Marracash preferisce la via facile facendo di tutta l’erba un fascio. Non solo: pretende anche di tirarsi fuori da questa realtà e di adottare uno sguardo che vorrebbe passare per disincantato o quanto meno super partes, ma che tale non riesce ad essere, finendo solo per fargli fare la figura di chi non ci sta capendo assolutamente nulla. Ecco allora il colpo da intellettuale 2.0: bisogna ritornare ad essere persone! Un pensierino degno di uno status su Facebook, ma Marracash ci ha fatto sopra un disco e c’è chi l’ha pure elevato a rango da intellettuale.


I versi sopra riportati, inoltre, stridono tantissimo in un album in cui, in pieno spirito individualista, si mette in scena continuamente una visione tribale del mondo, dove vige la guerra di tutti contro tutti – i puri e i sinceri vs. gli ipocriti e gli arrivisti – e dove si ammette tranquillamente che Noi siamo qui a fare quello che ci piace, loro sono la fuori che criticano e tutti gli altri sono intorno che tirano avanti. Potessi scegliere, sceglierei cento mila volte noi, ma è un attimo che ti ritrovi in mezzo a loro o che finisci male… come tutti gli altri. Morale della storia: che schifo essere come tutti gli altri.
Marracash crede di parlare di persone ma in realtà parla solo di una cosa: di sé. Quando dice Noi sta dicendo Io, il suo mondo, la sua musica, la sua famiglia, i suoi amori, i suoi successi, la sua sincerità, la sua superiorità morale. Il Loro esiste come entità giusto al di là del confine, per lo più come avversario indistinto (e quindi adatto per tutte le stagioni) da sconfiggere questa volta non con armi e pallottole ma con il valore morale dell’attitudine e della supposta autenticità. Gli Altri assistono a questo spettacolo, pubblico urlante nell’arena dei gladiatori oppure come massa grigia ed indifferente, costretta a vivere una vita piatta ed anonima.

Alla fine della fiera la cosa preoccupante non è tanto che un rapper che ha da sempre impostato la sua narrazione in questo modo lo faccia ancora una volta: è quello che gli riesce meglio ed è quello che il suo pubblico richiede, probabilmente. Il serio problema è che buona parte della stampa musicale si lasci abbagliare in modo così grossolano. Perché? Per fare cosa? Qual è l’obiettivo ultimo? Forse il livello culturale è talmente tanto basso che non appena qualcuno sembra dimostrare delle qualità appena sufficienti per produrre qualcosa di decente si grida al miracolo. O forse siamo talmente annoiati dalle nostre vite tutte uguali che sentiamo la necessità di creare sempre nuovi eroi, capolavori ed opere immortali per dare un senso ulteriore al tutto.

Ancora: più prosaicamente, siamo dei poveri coglioni che vogliono sentirsi migliori di tutti gli altri. Vogliono vivere anche loro una vita alla Marracash. Vogliono anche loro provare l’ebrezza dei soldi, dello champagne versato sui corpi perfetti delle modelle e dei modelli, di sfrecciare in Lamborghini per poi tornare nella propria villa con piscina per piangere lacrime di diamanti nell’ennesima storia su Instagram dove ci lamentiamo di non essere compresi e di quanto crudele e falso sia il mondo.

Che stanchezza. Che noia.
Naufraghi in un mare in tempesta, ancora un volta. In attesa che il treno deragli una buona volta facendo calare il sipario su questo spettacolo senza fine.

Urla, terrore, ansia e raccapriccio, ovvero l’ennesima playlist di Halloween

Ma anche orrore paura follia trauma psicosi paranoia cospirazione massacro assassinio sangue tortura dolore piacere sadismo miseria colpa espiazione manie persecuzione spiriti morte anime dannazione benedizione oscurità luce abisso disordine caos annientamento pazzia resurrezione unione decomposizione perdita odio amore sesso violenza dominio sacrificio corpo danza pulsazione aria terra

Yep, it’s that time of the year again.

Su quarantasei pezzi, solo due hanno come titolo Halloween, e direi che è un buon risultato. Spunta fuori pure della roba rap, giusto per evitare l’equazione Halloween = rock e metal.


Inutile dire che la composizione più spaventosa è quella di Ligeti.
Special guest: Chopin.
Very special guest: Krysztof Penderecki.
Very very special guest: David Lynch, perché si.


E no, mi dispiace ma non c’è il main theme di Halloween né nessun altro pezzo di Carpenter. A dire il vero, il tema del suo film più famoso c’è ma sotto un’altra veste. Premete play e lo scoprirete subito.














(No, non ci sono nemmeno i Ghostbusters)



Raccapricciatevi!

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Di Twitter, celebrità e testicoli gonfi

È stato uno di quei giorni nell’universo dei social media, pianeta Twitter. Il classico giorno a base di disinformazione, sensazionalismo, meme e polemiche, il tutto su un letto di ipertrofia dell’ego, come è d’obbligo.
A tenere banco la settimana scorsa è stata la rapper Nicki Minaj, non nuova nel dar mostra al mondo intero come raggiungere ulteriori livelli di imbarazzo.
Questa la perla da cui tutto è partito, giudicate voi.

Apriti cielo e apriti social.
Twitter è letteralmente esploso fra tag e contro tag.
Anthony Fauci è dovuto intervenire in mondo visione per debunkare in qualche modo il nesso fra vaccini e palle gonfie/impotenza.
Si è dovuta scomodare pure la Casa Bianca, dicendo di voler mettere in contatto la Minaj con i suoi esperti per rispondere a tutte le sue domande sulla sicurezza dei vaccini, in un disperato tentativo di tamponare in qualche modo questo capolavoro di disinformazione in un momento tanto delicato (ovviamente Nicki Minaj non ci ha capito un cazzo e ha inteso che fosse stata invitata PRESSO la Casa Bianca, e quindi l’entourage di quest’ultima ha dovuto specificare che no rincoglionita, non ti abbiamo detto di venire qui, al massimo ti fai na chiaccherata al telefono con uno dei nostri medici ultra stipendiati e bona lì!).
Ci sono finiti in mezzo anche Boris Johnson e Chris Witty, medico responsabile della risposta anti-covid in Uk, ai quali la Minaj ha inviato un messaggio audio dove li ha perculati facendo il verso al loro accento british.
Il Ministro della Salute di Trinidad e Tobago, visibilmente imbarazzato e sconsolato, ha dovuto ribadire che si, dopo tutte le nostre ricerche e il tempo perso dietro a tale minchiata, sta storia delle palle ingrossate causate dal vaccino è una puttanata grande quanto un grattacielo. Il suo video è meritevole di essere visto per l’aria assolutamente demoralizzata in cui ha dovuto ribadire una cosa così ovvia. Se non vi si stringe un po’ il cuore per quest’uomo, allora siete delle brutte persone.

Insomma, un casino totale.


L’uscita di Nicki Minaj sui testicoli dell’amico di suo cugino diventati come due noci di cocco fa il paio con le dichiarazioni (molto meno originali, a dire il vero) di Eric Clapton, che aveva sposato la causa anti-vax e anti-obbligo vaccinale per i soliti motivi reazionari e paranoici da repubblicano statunitense. Interessante notare come nonostante il gap generazionale fra i due pubblici di riferimento dei due artisti sia enorme – la Minaj con millennials/gen Z, Clapton con i boomer – entrambi si ritrovano a condividere le stesse dinamiche di disinformazione. A differenza di slowhand, però, la rapper statunitense sembra mossa più dalla costante voglia di essere al centro dell’attenzione, sebbene questo possa anche significare ricoprirsi di ridicolo e rendere pubbliche uscite a dir poco infelici e potenzialmente pericolose. Non c’è dubbio che alcune delle sue affermazioni (non solo quelle sui vaccini) si trovino allineate con la destra repubblicana e più radicale, e non è un caso che Tucker Carlson, noto commentatore di Fox News, abbia colto la palla al balzo per strumentalizzare l’assurdo tweet della pop star per dare contro i Democratici e compagnia progressista. L’episodio della Minaj è interessante perché, ad ogni modo, denota come in questo periodo di crisi sanitaria e sociale ogni dichiarazione, dubbio o allusione, anche i più assurdi ed innocenti, si possano trasformare in un caso nazionale, contribuendo ad esacerbare un clima di per sé già molto teso. Personalità in vista e perennemente esposte come Nicki Minaj si pongono al crocevia fra spettacolo e politica, e a partire dallo scoppio della pandemia il confine fra i due ambiti si è sempre più assottigliato, tanto che molte personalità dello spettacolo hanno ormai esplicitato le loro posizioni pro o contro i vaccini e il relativo obbligo. Posizioni che, ora come ora, sono a tutti gli effetti politiche.

Certo è che la Minaj sembra affetta dal tipico narcisismo paranoide di cui soffrono le persone ego maniache, le quali sono incapaci di mettere in discussione le proprie certezze, di porsi due domande e di verificare ciò che affermano e pensano. Poco importa alla fine se l’amico del cugino esiste davvero: ciò che importa, per lei, è di dover dire la sua, sempre e comunque, e di dominare i motori di ricerca e le testate dei giornali e dei tabloid.
E questo ci conduce ad un altro nocciolo della questione, ovvero: perché questa gente ultra famosa non ha ancora capito che deve dosare le parole? Perché non ha ancora capito che ha delle enormi responsabilità non solo verso i propri fan, ma verso la società nel suo complesso? I social permettono di raggiungere miliardi di persone istantaneamente; ormai non basta pensarci su solo una volta, ma dieci, quindici, venti volte, prima di premere il benemerito tasto invio per pubblicare un commento o un tweet. Molti di questi personaggi pubblici sono strettamente dipendenti dalla tecnologia – in particolare dai social – ma la usano ancora come fossero dei bambini, cioè lasciandosi dominare da essa e senza porre alcun filtro. Il caso di Trump ha ormai fatto scuola, ma è stato solo quello più eclatante, visto che si trattava del presidente degli Stati Uniti d’America e, quindi, dell’uomo più potente del mondo; ben prima di lui così come dopo di lui, il rapporto fra personaggi pubblici e tecnologie digitali era e continua tuttora ad essere molto complicato.

Come ascoltatori e fruitori di musica ed intrattenimento, vogliamo ancora sopportare questo modo di fare? Davvero siamo disposti a celebrare il più completo menefreghismo di questa gente? Giusto per fare un esempio: chi glielo dice alla Minaj, il cui profilo Twitter conta sui 22 milioni di followers, che un tweet del genere va anche e soprattutto a discapito delle minoranze che non possono accedere facilmente alle vaccinazioni contro il covid e alle cure ospedaliere necessarie? Fra quelle minoranze rientrano anche gli afroamericani e i sudamericani, quest’ultima categoria alle quali lei appartiene, essendo nata a Trinidad e Tobago e cresciuta a New York. Gente come Nicki Minaj straparla di empowerment e di discriminazione, ma in realtà gode del potere che fama, soldi e successo garantiscono loro; la conseguenza non è altro che il continuo perpetuarsi di tutto un sistema che danneggia non i privilegiati come lei, bensì tutti coloro che non hanno accesso a quel potere, e che quindi lo subiscono.

Questa gente deve capire che responsabilità ha verso la collettività, altrimenti deve essere pronta ad assumersene le conseguenze. Per questo bisognerebbe essere meno fan e più ascoltatori critici; evitare di idolatrare la persona, cosicché da non giustificarla sempre e comunque, ed ascoltare la musica in maniera più ragionata e filtrata dalle nostre idealizzazioni. In questo modo potremo fare davvero nostra l’arte che ascoltiamo.

Ma ora basta con il momento serietà, è arrivato il momento dello shitposting! Fra tweet di risposta a quello della Minaj e un paio di memini belli caldi, ce n’è per tutti i gusti. Buon appetito!

Lui ha vinto l’internet

Ah si, inutile dire che la colonna sonora del pezzo è questa qui:

La scala d’argento per la dimora della tigre

L’anno scorso sono usciti due album bellissimi sia fuori che dentro: Silver Ladders di Mary Lattimore, arpista di base a Los Angeles, e Shrines, del duo Armand Hammer. A colpirmi non è stata solo la musica contenuta in ciascuno dei due lavori – ambient minimalista dove l’arpa disegna piccoli quadri astratti il primo, un bricolage hip hop di ritmi e rime perennemente cangianti il secondo – ma anche le rispettive copertine.

La copertina di Silver Ladders

La copertina di Shrines

A mio modo di vedere, sono due due grandi copertine per due motivi principali: riflettono perfettamente la musica contenuta nelle canzoni e, soprattutto, sono esteticamente molto accattivanti. Sono immagini che raccontano storie, anche più di una, risucchiando l’osservatore all’interno dei loro mondi a metà fra reale e immaginifico: la prima con il suo placido distacco, la seconda con aggressività ed impatto. In pratica, così diverse ma anche così simili.

L’aspetto a mio avviso interessante è che entrambe hanno il potere di indicare altri mondi invisibili, come degli incipit per dei racconti o le prime scene di due film. Cosa ci sarà al di là di quella porta in Silver Ladders? Perché quei pianeti sul muro? E quel cane appisolato al di sotto di essi, starà per caso sognando quegli stessi pianeti? Perché diavolo c’è una tigre appostata ad una finestra? E cosa starebbe tentando di fare quel poliziotto? E così via, in un turbine di domande che non fanno altro che aumentare la curiosità nei confronti della musica nascosta da quelle immagini. Ai miei occhi sembrano dotate di una sorta di realismo magico, non nel senso del sovrannaturale come elemento razionalmente inspiegabile o, per l’appunto, magico, ma più che altro inteso come l’intrusione dell’inaspettato, del misterioso e dell’improbabile nella realtà quotidiana. Come una luce che illumina ogni volta in maniera diversa una stanza o una statua, mettendone in risalto o nascondendone determinati aspetti e caratteristiche non osservati prima.

Oltre alle storie che possiamo ricreare per conto nostro, quelle copertine rimandano ad eventi e persone realmente esistenti, magari non direttamente collegati con i temi e il mood dei brani. Questo è particolarmente evidente per Silver Ladders, la cui copertina è un’opera di Becky Suss, artista particolarmente interessata alla ricreazione di ambienti domestici e familiari. Il dipinto – Mic (Lighthouse with Solar System) – ritrae una scena presa direttamente dal libro Cheaper By The Dozens, romanzo autobiografico del 1948 famoso soprattutto negli Stati Uniti. Il libro è stato scritto da Frank Bunker Gilbreth Jr. ed Ernestine Gilbreth Carey, fratello e sorella di una famiglia composta da ben dodici bambini, sei maschi e sei femmine, i cui genitori erano Frank Bunker Gilbreth e Lillian Moller Gilbreth. Se vi state chiedendo chi fossero costoro, sappiate che la vostra ignoranza è giustificata, visto che ai più il nome dei coniugi Gilbreth non dirà nulla, ma dirà tantissimo a chi si occupa di ingegneria industriale, in particolare a chi si interessa ai Time and motion studies, campo specialistico che negli anni ’40 rinnovò la causa del Taylorismo raffinandone le tecniche di parcellizzazione del tempo atto ad impiegare una particolare mansione in un ambiente di lavoro meccanizzato. Avete presente Charlie Chaplin in Tempi Moderni? Ecco, quello. Quegli studi pioneristici sono tuttora impiegati come standard per le aziende in tutto il mondo. Ora, la cosa curiosa è che le stesse tecniche sviluppate dai Gilbreth per quantificare e misurare i processi di lavoro manuale sono state impiegate dagli stessi coniugi all’interno della loro famiglia, ovvero ogni singolo componente aveva un suo specifico compito da realizzare entro uno specifico tempo e in un certo modo. Cheaper By The Dozens racconta in maniera divertente e leggera proprio le peripezie della famiglia Gilbreth e il loro modo di affrontare collettivamente le difficoltà quotidiane, tanto che nel corso del tempo è diventato negli Stati Uniti un classico per ragazzi, grazie anche alle varie trasposizioni cinematografiche (a breve ne è prevista un’altra su Disney+, giusto per sottolineare l’impatto che l’opera ha nell’immaginario USA). Insomma, il libro ha popolarizzato e diffuso il prototipo della famiglia modellata sui principi della produzione industriale.

Cosa c’entra tutto ciò con la copertina dell’album di Mary Lattimore? Un cazzo.
Perché vi ho raccontato dei coniugi Gilbreth e delle loro manie razionaliste? Non lo so. Mi sembrava interessante, tutto qui. Ma soprattutto mi piaceva l’idea di tracciare una linea che unisse in maniera invisibile due cose che apparentemente non c’entrano nulla l’una con l’altra, e che anzi stridono e si pongono agli antipodi: da una parte la delicatezza, la fantasia, i colori, il mistero della copertina di Silver Ladders; dall’altra l’ordine, la razionalità, la disciplina, la freddezza del mondo industriale e dei Gilbreth.

Storie dentro storie dentro ad altre storie.

Diverso è, invece, il discorso intorno alla copertina di Shrines, dove la vicenda di Ming può essere in qualche modo collegata alla visione del mondo messa in musica da Elucid e billy woods.
Chi è Ming? Ma come, non l’avete ancora capito? È il simpatico tigrotto in agguato alla finestra! Ming è ormai un simbolo di Harlem, dove è vissuto sino al 2003 in un appartamento insieme al suo proprietario, Antoine Yates, appassionato di animali esotici (era anche in possesso di un alligatore che teneva in una delle stanze da letto). In breve, il novello Tiger King fu sgamato dalla polizia dopo essere stato al pronto soccorso, dove si era recato per farsi curare dai morsi causati proprio dal suo felino coccolone. Nel frattempo, la storia di Ming era diventata una specie di leggenda urbana in tutto il quartiere, tanto che i vicini di Yates scherzavano sul fatto che lui riuscisse a mangiare 9 kg di carne al giorno; in seguito alla scoperta della tigre siberiana, hanno capito che, insomma, la carne non era esattamente per lui…
Storie di ordinaria follia nella Grande Mela, insomma (in Italia, invece, gli unici “animali” pericolosi sono le bufale sui presunti avvistamenti diffuse da tg e tabloid).
La polizia newyorchese riuscì alla fine ad introdursi nell’appartamento; Ming fu in seguito spostato in un luogo adeguato; Antoine Yates arrestato e condannato.

La morale di questa storia? Mangiare 9 kg di carne giornalieri non è il massimo per la salute.
No dai, seriamente… ma quale volete che sia, la morale? Gira e rigira, è sempre la solita.
Ovvero che a volte ci sentiamo tutti un po’ come Ming: in gabbia. Chiusi e costretti in un luogo, sia esso fisico o mentale, che non ci appartiene e che ci aliena da noi stessi.
Per dirla con le parole degli Armand Hammer:

Don’t you feel like Ming sometimes, man?