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Musica su cui fumare quintalate di Erba Pipa: Bo Hansson – Music Inspired by The Lord of the Rings

Dimenticate Howard Shore. Dimenticate la London Philarmonic Orchestra. Dimenticate Enya.
Lo svedese Bo Hansson compone e registra la sua personale colonna sonora di un ipotetico film del Signore degli Anelli con chitarre, Moog, sintetizzatori, basso, batteria, percussioni, sax e flauto. Tutto questo fra il ’69 e il ’70, decenni prima di Peter Jackson, delle maratone da nerd tolkeniani e di quel gran pezzo di elfo di Liv Tyler.

Hansson sceglie un approccio che è diametralmente opposto a ciò che ci aspetteremmo da una musica concepita per l’epica fantasy del Signore degli Anelli. La mia generazione è cresciuta con quelle scene, con quegli attori, con Gandalf che urla TU NON PUOI PASSARE!; inevitabile che qualsiasi rimando al capolavoro di Tolkien successivo alla metà dei 2000 si scontri con la trilogia di Peter Jackson. Per questo, a mio avviso, chi fra le nuove generazioni decidesse di avvicinarsi al disco di Bo Hansson, si troverebbe completamente spiazzato.

Quella del musicista svedese è musica talmente dissonante per la nostra idea di ciò che riguarda il Signore degli Anelli che, una volta premuto play, ci ritroveremo sprofondati nel divano con uno spinello di erba pipa fra le mani invece che brandire una spada macellando orchi presso il fosso di Helm. La musica del compositore svedese è priva di qualsiasi epicità o di carattere puramente orchestrale, anzi: il suo tocco è minimale negli arrangiamenti e spettrale nelle atmosfere, grazie soprattutto all’uso dell’organo che sembra celebrare una lunga messa in una terra dimenticata dagli uomini. Una scelta stilistica che non fa altro che aumentare quel senso di mistero profondo dell’opera tolkeniana, facendo in modo che una fitta nebbia si innalzi sopra la Terra di Mezzo avvolgendo personaggi, eventi e luoghi. In certi passaggi la musica sembra addirittura tendere verso il silenzio, aumentando la tensione ed instillando un piacevole e leggero senso di spaesamento. Le note cadono spesso e volentieri nel vuoto, i ritmi si muovono sinuosi come per non essere notati. Qui non c’è nessun direttore d’orchestra che, in preda a furori beethoviani o wagneriani, incalza la sua orchestra con impeto romantico, no: qui al massimo si possono scorgere i Pink Floyd suonare per il sole nascente fra le rovine di Pompei.

Library music? Forse, ma il buon Hansson non si limita a tracciare degli schizzi musicali con cui semplicemente accompagnare delle ipotetiche sequenze cinematografiche. Qui c’è di più, e la portata musicale del progetto riesce ad essere personale attingendo da quel crocevia di prog, jazz e psichedelia che fra la fine degli anni ’60 e i primi ’70 costituiva quanto di più interessante la musica popolare stesse partorendo (anche se di prog classicamente inteso qui non c’è neanche l’ombra, al massimo si potrebbe ipotizzare che il disco abbia più tendenze ambient che altro, creando inaspettatamente un ponte per quello che nei decenni successivi sarà il filone della dungeon synth oggi in voga).
Chi cazzo potrebbe immaginare di mettere delle conga in un disco ispirato al Signore degli Anelli??? Ne devi fumare di erba pipa per concepire una cosa del genere! Sarà che forse Bo Hansson ne avrà abusata parecchia quando è andato a registrare il disco nella remota isola di Älgö, nell’arcipelago di Stoccolma, di fronte al mare a -30° e nessun uomo o mezz’uomo nei pareggi per svariati chilometri.

I cinquant’anni del disco si sentono tutti, in ogni passaggio, in ogni nota di quella chitarra acida e tremendamente psichedelica (voci lontane provenienti da Mordor dicono che sarebbe stata suonata niente meno che da Jimi Hendrix…), fra i lampi dei synth e i sussulti delle percussioni. Ed il suo fascino risiede anche in questo: proprio come la storia del Signore degli Anelli è completamente lontana dalla nostra esperienza quotidiana, così l’opera di Bo Hannson sembra provenire da un tempo e da uno spazio mitici, propri del sogno.
La polvere si è appoggiata su questo disco e soffiarla via dai suoi solchi è come attraversare lo specchio per accedere ad un’altra dimensione. L’ascoltatore si siede di fronte al fuoco acceso in piena notte, pronto per essere spaventato ed eccitato da una nuova storia.
Ancora meglio se rullando e facendo girare dell’erba pipa fresca.

Surfare sull’arcobaleno con i Guerilla Toss per sentirsi vivi

Si parlava di prog qualche tempo fa (qui e in parte anche qui), della sua innata apertura verso la sperimentazione e di come questa attitudine sia diventata nel tempo il principale lascito del genere per le successive generazioni future di musicisti. Parlare di progressive rock in senso stretto nel 2022 può suonare anacronistico, ma farlo in senso lato, cioè appunto di “attitudine a la prog rock“, non tanto. Quest’attitudine è viva e vegeta in una marea di gruppi contemporanei: uno di questi sono i newyorkesi Guerilla Toss. Ieri sera li ho visti suonare in città, ed è stato un concerto estremamente carico e coinvolgente, dove il ballo si è mischiato al pogo, il canto alle urla, i synth multicolore alle chitarre slabbrate, l’analogico al digitale.
Il trio (accompagnato dal vivo da basso e tastiere) è reduce dalla pubblicazione del quinto album Famously Alive, un ulteriore passo verso quella rotondità sonora e stilistica avviata dal precedente Twisted Crystal e che non fa altro che smussare gli angoli più appuntiti della loro proposta, rendendola potenzialmente più appetibile ad un pubblico più ampio (per di più è uscito per Sub Pop, quindi gli hipster alla Pitchfork e che vanno al Coachella non avranno problemi ad approcciarsi a loro).
Chiaro che la psichedelia più acida trasmutata direttamente da gente come The Flaming Lips tiene insieme il tutto; quella strana sensazione di essere immersi in una gigantesca bolla multicolore che pervade le narici con fumi lisergici è sempre presente, se non più accentuato, solo che sui pezzi di Famously Alive si innesta una ricerca della melodia prettamente pop molto più marcata. Dal vivo, infatti, pezzi come la title track – che ha aperto il concerto, e non poteva essere altrimenti – Live Exponential e Cannibal Capital fanno subito presa (lo fanno su disco, figuriamoci dal vivo dove tutto è ancor più amplificato!). Non ne parliamo poi di un pezzo come Wild Fantasy, per il quale è impossibile tenere fermi sia testa che culo e che dal vivo, invece, diventa una cavalcata krautrock lanciata a velocità supersonica a bordo del gatto Nyan su un arcobaleno cosmico. Insomma, chiaro no? Se avete voglia di un buon trip, Famously Alive fa proprio al caso vostro.

A dispetto di un un inizio un po’ in sordina e di alcuni trascurabili problemi sul palco, i Guerilla Toss hanno semplicemente spaccato, suonando compatti e puliti. Dal vivo esce fuori tutta la loro tecnica, e cazzo! ci si rende subito conto di avere di fronte musicisti di un certo calibro, principalmente batterista e chitarrista, ma soprattutto il batterista, Peter Negroponte, motore della band dal tocco funk e jazz, ma che non disdegna qualche legnata ben assestata quando il pezzo lo richiede.
Le legnate, già! Non sono mancate neanche quelle, e quanto più la scaletta si è avvicinata alla sua conclusione, tanto più i Guerilla Toss hanno spinto sull’acceleratore con schizzate pazze punk e deliri funk che rimandavano direttamente alla prima parte della loro carriera (a quel disco incredibile di Eraser Stargazer, che sempre sia benedetto!). L’equilibrismo dato fra la pesantezza della sezione ritmica e la leggerezza data dall’intreccio chitarra/voce/synth è una delle qualità più interessanti dei concerti dei Guerilla Toss e che nella loro discografia può essere carpita solo a spizzichi e bocconi, un pezzo lì e un altro qui, per poi dover ricostruire il tutto nella propria mente. Dal vivo la band non si risparmia e spiattella tutti questi frammenti in faccia al pubblico, che non può far altro che apprezzare il sapore di questa space cake super cremosa.

Famously Alive è il disco più “pop” dei Guerilla Toss, l’album rifinito e curato di un gruppo ormai pienamente maturo e che sa di poter giocare con la propria musica come più gli aggrada; un disco, inoltre, scritto e concepito in piena pandemia ma che nonostante ciò parla di come sia necessario ricominciare a vivere e richiamare a raccolta tutte le proprie energie proprio per sentirsi “magnificamente vivi”. I loro concerti sembrano tramutare questa spinta vitale e rimangono ancora selvaggi, rumorosi, esagerati, nonché i luoghi dove è possibile ritrovare ancora oggi in controluce, fra una bolla acida e l’altra, quell’eredità psych/prog di fine anni ’60/primi anni ’70. Una fantasia scatenata, finalmente, e ve lo dice uno che non si faceva un concerto dal marzo 2020.


P.S. Per la cronaca, Grass Shack è uno dei pezzi più belli e pazzi degli ultimi dieci anni.

Radio a Sonagli – Marzo 2022

Partiamo dal principio, dal titolo: non mi convince molto, anzi direi che “Radio a Sonagli” mi convince solo a metà. Mi dovete scusare ma oggi, mentre stavo guidando imbottigliato nel traffico nel tentativo disperato di tornare a casa dopo il lavoro, la mia mente stanca e altrettanto imbottigliata non è riuscita a partorire niente di meglio. Ma quindi cos’è “Radio a Sonagli”? Ah non lo so, non chiedetelo a me! Chiamarla rubrica mi suona troppo pretenzioso. Il suo scopo, però, quello si mi è chiaro: condividere gli ascolti mensili pubblicando una lista alla fine di ogni mese (il 30, il 31 o comunque giù di lì, si potrà sforare di un paio di giorni, ci vuole tolleranza in queste cose, lo sapete, soprattutto per un tipo come me allergico alle scadenze). Uno spazio, quindi, per tirare un po’ le somme e tenere delle tracce, una specie di aperta e chiusa parentesi nel fluire degli ascolti, che spesso diventan fiume incontrollato che rischia di sommergere ogni cosa, pure il piacere dell’ascolto.
Ad aiutarmi ci sarà Topster, ottimo per tirare giù questo tipo di elenchi (con tanto di copertine degli album, non è una cosa super carinissima e molto nerd?), se non lo conoscete vi suggerisco caldamente di farci un giro.

Ci stiamo ancora chiedendo perché questa cosa? Boh, merito del troppo tempo passato incolonnato nel traffico, probabilmente. Il fatto che mi sembri un’operazione divertente e un modo per condividere i miei ascolti con altri appassionati credo che possano bastare e avanzare come valide motivazioni. E poi sto blog va riempito con qualcosa, no? A parte tutto, la condivisione è ciò che sta alla base di RaS, nella speranza di avviare uno scambio di idee ed opinioni fra amanti della musica, ricevendo magari suggerimenti per ulteriori ascolti. E poi c’è un altro aspetto da considerare, un valore aggiunto non indifferente: come accennato, spero di riuscire a tenere traccia della roba che ascolto. Prima non ci facevo caso ma negli ultimi tempi mi sono posto a più riprese la questione di quali percorsi i miei ascolti hanno intrapreso. So da dove essi “vengono”, posso tracciare la loro origine (ricordo ancora il primo CD acquistato, What’s the Story (Morning Glory) degli Oasis, un disco che mi ha introdotto in maniera molto soft nel reame del rock, l’allora via privilegiata per il me adolescente che si apprestava a scorazzare per le vaste e luminose praterie della musica come un cowboy), gli sviluppi avvenuti negli anni, le strade senza vie d’uscita e le differenti ramificazioni. E poi, ovviamente, durante diversi periodi della vita sono corrisposti diversi tipi di ascolti, come accade tuttora e come succede a tantissimi.
In questo momento della mia vita (quale momento? che significa questo termine? dove e inizia e dove finisce, se mai finisce questo fantomatico momento? Quanta arbitrarietà che racchiude questa parola) sono arrivato ad un punto in cui riesco a percepire che la mia predisposizione all’ascolto è quanto più aperta possibile. Possono esserci dei periodi più o meno lunghi in cui magari mi concentro ad ascoltare poche cose perché in quel preciso istante ne ho bisogno, oppure perché voglio vedere come suona qualcosa che conosco a distanza di tempo (ed è successo proprio così per quanto riguarda alcuni dischi in questo elenco di Marzo). Ma ciò che sto ascoltando, per quanto un album o un artista mi abbiano potuto colpire, non diventerà mai esclusivo, bensì un trampolino per poi scoprire dell’altro, ciò che sta oltre quel tipo di musica. Per arrivare anche all’opposto di certe sonorità. Non mi ha mai attirato l’idea del gruppo preferito/artista preferito, non è mai stato realmente il mio modo di vivere la musica, da fan. Sarebbe stato come legarsi ad una sola persona per tutta la vita. La musica, invece, dà la possibilità di vivere in maniera libera ed aperta il nostro rapporto con essa; anzi, credo che per sua natura essa ci sproni quanto più possibile in questa direzione. Rispetto alle altre arti, parla direttamente alla parte più profonda di noi, quella che sfugge al nostro controllo, addentrandosi in luoghi imperscrutabili. Evoca realtà invisibili, eppure più reali del reale stesso. La musica è una cosa grande e spaventosa anche per questo. Personalmente, riuscire a mantenere questa apertura all’ascolto significa godere quanto più possibile di ciò che la musica ha da offrire; privarsene eleggendo un artista, un genere o una corrente al rango di “assoluto musicale” significherebbe rinunciare alla libertà di scegliere.

Ciò che salta subito agli occhi nell’elenco di Marzo è l’assenza di nuove uscite: il disco più recente è 777 – Cosmosophy dei Blut Aus Nord, uscito nel 2012. Non c’è una ragione precisa se non quella che durante i primi mesi dell’anno di solito ascolto ancora roba uscita durante l’anno precedente (ho una lista lunghissima che non riesco mai a smaltire), mentre aspetto che la roba nuova esca man mano per poi iniziare ad ascoltarla per bene più in là. E poi vale sempre la regola aurea number one: ascoltare il cazzo che ci pare, ed ascoltarlo bene. In questo senso, la presenza di tutti quei dischi progressive – Emerson, Lake & Palmer, Balletto di Bronzo, Genesis & co. – è stata dettata dal fatto che ho sentito la necessità di riascoltare un po’ di quei suoni vintage, forse per rievocare un periodo storico lontanissimo dalla mia generazione. Insomma, un tuffo nel passato, fatto tramite un genere, il prog, che riesce letteralmente a far viaggiare la mente grazie alla sua intrinseca capacità narrativa. La grande scoperta sono stati i Greenslade, il cui debutto del ’73 è una perla del genere grazie ad un mix atomico di prog intriso di funk e r’n’b, una formula che li differenzia da altre formazioni del genere di quel periodo. Valore aggiunto assolutamente non indifferente: in quel disco si possono ascoltare quelle che a mio parere sono le migliori linee di basso per un album prog, suonate da Tony Reeves, jazzista inglese prestato all’ambito rock, le cui dita non stanno MAI ferme. Semplicemente una meraviglia. Inoltre, sono arrivato alla conclusione che A Trick of the Tail è uno dei miei album preferiti dei Genesis, nonché il mio album post-Peter Gabriel preferito, stacce! Si percepisce che Wind & Wuthering inizia a virare verso altri lidi, quelli pop anni ’80, che a volte bisticciano con le costruzioni tipicamente progressive e sinfoniche. Eppure, il fascino di quel disco potrebbe risiedere proprio in questa dualità, nei suoni più rotondi e in un approccio complessivamente più accessibile per l’ascoltatore. Con l’addio di Gabriel, il gruppo inglese perde la sua maschera istrionica, e da folle giullare si trasforma in un musicista in giacca e cravatta, attento ad ogni minimo dettaglio e maniaco del controllo. Ognuno deciderà a seconda dei propri gusti se sia stato un bene o un male, ad ogni modo reputo Wind & Wuhtering un disco molto influente per il prog degli anni ’80.
Marzo è stato anche il mese della scomparsa di Mark Lanegan, e non ho potuto far altro che riascoltare almeno i suoi primi due album insieme agli Screaming Trees, che mi hanno letteralmente accompagnato per tutte queste settimane. Nonostante stiamo parlando di musica uscita circa trent’anni fa, The Winding Sheet e Whiskey for the Holy Ghost – il mio preferito del Lanegan solista – sono invecchiati molto bene come un buon whiskey. Il primo, a mio avviso, è il miglior esempio di un riuscitissimo mix fra sensibilità grunge ed essenzialità folk, che, anche se non completamente formato, mostra tutto il talento prematuro di Lanegan, talento che sboccerà compiutamente con il successivo Whiskey for the Holy Ghost e che permetterà al musicista di piazzarsi direttamente affianco al miglior Nick Cave e Tom Waits. Un’opera, quella del 1994 che, nonostante racconta il proprio inferno personale, riesce a descrivere quello di tutti.
Per amor di completismo, due dischi che sono sempre mancati all’appello sono stati Presence dei Led Zeppelin e Down on the Upside dei Soundgarden, due gruppi legati fra loro dalla stessa elettrica e tellurica energia, rispettivamente padri e figli (quest’ultimi più che legittimi) dagli esiti, in questo caso, assai differenti, visto che i figli sono riusciti a superare abbondantemente i padri. Presence, a parte un paio di episodi come Achilles Last Stand e Nobody’s Fault but Mine, mi ha dato l’idea di un gruppo ormai stanco e a fiato corto, la versione pallida e annoiata dei Led Zeppelin dei primi ’70, forse consapevoli della loro fine imminente. Il cambio di approccio, meno muscolare e deprivato dell’aspetto prettamente “hard” della loro musica, sarebbe potuto essere molto interessante e dagli esiti imprevedibili; il tutto però si risolve in un disco tutto sommato stanco, semplicemente ascoltabile ma con la pretesa – e qui risiede, secondo me, il problema alla base del disco – di riproporre pari pari gli stessi, soliti Zeppellin, cambiandone semplicemente la patina esteriore. Presence suona come un’occasione mancata, mettendo malamente fine a quella seconda fase della carriera del gruppo inglese che aveva portato alla nascita di due capolavori come Houses of the Holy e Physical Graffiti. (Nota a margine: mi sono sempre chiesto il perché di quella copertina, inusuale per una band come i Led Zeppelin. Mettendo insieme il titolo del disco, la disposizione circolare dei soggetti e il misterioso oggetto al centro del tavolo, sono arrivato alla conclusione che potrebbe riferirsi ad una sorta di seduta spiritica, evocazione o qualcosa del genere. Chi conosce l’interesse per la mitologia e l’esoterismo di Page e compagni, credo che non avrebbe problemi ad accogliere questa ipotesi).
Tutto il contrario invece per l’ultimo disco (prima della reunion) dei Soundgarden, un’opera capace a mio avviso di essere all’altezza di Superunknown e che affina ulteriormente, se possibile, le capacità di songwriting di Cornell e compagni. Down on the Upside ha solo la doppia sfiga di essere uscito dopo il disco di maggior successo commerciale della band di Seattle e di essere stato l’ultimo lascito prima dello scioglimento, andrebbe invece riscoperto e tenuto maggiormente in considerazione.

Il resto dell’elenco è tutta roba che ho voluto riascoltare per (ri)vedere l’effetto che fa a distanza di anni, e mi riferisco soprattutto ai Pink Floyd – The Division Bell è il loro album verso il quale provo maggiori sentimenti contrastanti, a tratti mi sembra un disco di Gilmour solista, mentre risulta molto buono Obscured by Clouds, vario e capace di anticipare un po’ di cose che si materializzeranno su The Dark Side of the Moon.
Il black metal dei Sargeist, Blut Aus Nord e Wolves in the Throne Room perché si, un po’ di violenza ci sta sempre, così come il jazz, ce lo devi infilare perché se no stai vivendo una vita di merda, e allora guardi la copertina di Miles Smiles e vedi Miles Davis che sorride compiaciuto, e quello ti trasmette tranquillità e un profondo senso di pace, e così pensi: “Ma quale altro disco jazz mi fa sentire così? Neanche la droga, guarda”. E continui a ridere e a sorridere.
Starsailor, Moondog e Y fanno parte di questa lista che ho deciso di seguire per scoprire cose che non conosco oppure per riascoltare con orecchie diverse roba che non ascolto da un sacco. Sono 500 dischi, se dopo un mese ne sono riuscito a riascoltare solo tre con i miei tempi finirò quando sarò in punto di morte…

Per chi invece ha più tempo e vuole ascoltarsi una traccia presa da ogni disco nella lista, ho fatto una apposita compilation su Spotify. Vedrò di farne una allegata ad ogni articolo di Radio a Sonagli, poi non dite che non vi penso!

1972-2022: Cinquant’anni di progressive rock, musica inattuale

Nel 1972 un giovane ventenne poteva svegliarsi la mattina, aprire la sua bella copia di Melody Maker o NME, scorrere il ditino sulle varie classifiche di vendita e trovarci, fra le altre cose, roba come Thick as a Brick dei Jethro Tull, Close to the Edge degli Yes e Caravanserai dei Santana. Niente male, eh? Ma tranquilli, non mi metterò a fare paragoni con la scena musicale attuale, sarebbe un giochino inutile e scontato – troppo diversi gli scenari, lontani anni luce gli uni dagli altri per orientamenti stilistici e gusti generali.
Di certo, però, si può affermare che il 1972 è stato uno degli anni in cui un nuovo sotto genere del rock, il progressive rock, ha raggiunto uno dei suoi maggiori picchi creativi più rappresentativi, riuscendo non solo a sgomitare facendosi largo nel nuovo panorama rock dell’epoca, ma anche ad imporsi come LA novità presso i giovani capelloni affamati di suoni inediti, pezzi dalla durata improponibile per le radio, canzoni che più che essere tali erano dei veri e propri viaggi sonici e contorsioni strumentali olimpioniche.
Non c’era più il sogno flower power degli hippies del decennio precedente, ma nonostante ciò la creatività era rimasta al potere; era come se negli anni ’70, musicalmente parlando, si fosse cercata comunque una via altra ma senza mai perdere il contatto con la realtà, anche quando questa risultava cinica e violenta. Anche quando si trasformò in un decennio di piombo.
A mio modesto avviso, anni ’60 e ’70 sono le due facce della stessa medaglia, complementari ma non opposte. Per molti, il risveglio dal sogno psichedelico nel quale erano stati cullati dalla summer of love fu per lo più traumatico: era il tempo di ritornare con i piedi per terra, senza più ingenuità e facili vie di fuga. Quel sogno collettivo era stato luminoso e puro, una danza condotta sotto qualsiasi cielo, per tutti. Ma come tutte le cose più intense, fu destinato a durare poco. Il decennio dei ’70 quindi è stato la campana a morto del funerale degli anni ’60, la stessa campana dell’omonimo primo disco dei Black Sabbath, un gruppo il cui malefico fiore poteva nascere solo e soltanto in quel nuovo decennio.

Personalmente la vedo così: i ’60 sono stati un good trip, i’70, invece, un bad trip. La realtà si stava affacciando sulle soglie delle coscienze, e bussava, bussava forte, e non aveva certo intenzione di andarsene, anche a costo di buttare giù la casa come il lupo con i tre porcellini. Quei ragazzi non più adolescenti o ventenni iniziarono a capire che il mondo e le persone sono cose molto più complesse, contraddittorie e pericolose di quanto vorrebbe farci credere un qualsiasi guru improvvisato: delle lunghe suite prog rock, articolate e labirintiche, pervase da momenti di stasi ed altri frenetici, dove poter cantare i propri inni a squarciagola alzando le braccia al cielo e un attimo dopo immergersi nella cacofonia più totale e nell’alienazione di strumenti che parlano una nuova lingua.
Non era il tempo della contemplazione, ma dell’azione.
Era il tempo, insomma, di abbracciare il lato oscuro della luna.

Non che il progressive rock dei ’70 abbia cancellato con un colpo di spugna la musica di matrice psichedelica del decennio precedente. Anzi, per alcuni versi ne costituisce la prosecuzione attraverso una personale rielaborazione, mentre per altri arriva a negarla. Il tratto comune, però, sarà sempre e solo la sperimentazione: col jazz, con la classica, con suoni acustici ed elettronici e con tradizioni musicali locali. Sono alquanto convinto che il progressive si sia potuto definire tale – che abbia cioè potuto maturare una certa coscienza di sé – nel momento in cui il rock , ovvero, in maniera semplificata, quell’intero universo che era stato partorito dalla sfera musicale inglese dal dopoguerra in poi imponendosi come nuova musica popolare per le nuove generazioni, si è aperto a linguaggi musicali completamente estranei. Nei ’60 ci sono stati ovviamente esperimenti in questo senso – basti pensare ai Beatles che flirtano con i suoni indiani, nonché la stessa cultura psichedelica che guardava ad Oriente. Lo scarto operato dai gruppi prog, però, è ancora più ampio e, per certi versi, più sfrontato: uno strabordare dagli stessi perimetri del rock inglobando tutto e di più. Una sorta di metagenere di quegli anni, anche se può suonare esagerato; ma cos’è il prog rock, alla fine, se non appunto esagerazione? Un frullato, forse, ma non indigesto né tanto meno insapore, ma con una sua ben precisa identità, grazie a quella qualità “narrativa” propria del genere data attraverso l’adozione del concept come format per gli album e, soprattutto, all’alternanza di differenti atmosfere anche all’interno di uno stesso brano.

Apertura ad altri linguaggi, assimilazione totale e capacità narrativa: tre caratteristiche che personalmente reputo fondamentali per orientarsi attraverso la genesi e lo sviluppo del prog. Una fetta di appassionati e di critici reputano dischi come l’omonimo dei Procol Harum (1967), quello dei Caravan (1968) e Days of Future Passed (1967) dei The Moody Blues dei precursori del prog rock, dischi che hanno dato un forte impulso alla nascita del genere e che incarnerebbero di fatto le sue principali caratteristiche. Se da una parte è indubbio che il progressive degli anni ’70 sia stato influenzato dal rock del decennio precedente (e non potrebbe essere altrimenti) ereditando soprattutto quella volontà a voler andare sempre oltre e a sperimentare, tirare in ballo quei dischi significa a mio avviso restringere di molto l’indagine sulla reale origine del genere. Quei dischi, infatti, sono perfettamente inseriti nel filone del rock in voga negli anni ’60, strutturati sulla classica alternanza strofa/ritornello e mancando qualsiasi volontà di voler per lo meno giocare con questi canoni. L’album dei The Moody Blues è quello che si avvicina di più in questa direzione tramite l’introduzione dell’orchestra, ma il suo utilizzo non è per niente integrato nella musica del gruppo, risultando alla fine come un’aggiunta (in molti punti si ha come l’impressione che l’orchestra faccia da semplice intermezzo fra un brano e l’altro) e senza che i due linguaggi, rock e classica, riescano realmente a fondersi per dar vita ad un terzo altro. Nonostante la sua apertura e l’evidente capacità narrativa, Days Of Future Passed non riesce ad arrivare ad una vera e propria sintesi. Insomma, se proprio bisogna tirare in ballo gli anni ’60, credo che The Piper At The Gates of Dawn dei Pink Floyd o il primo dei Soft Machine possano rendere maggiore giustizia, proprio per il loro essere dischi sovversivi pur mantenendo i contatti con le sonorità del loro tempo.

Ma ad ogni modo, il vero terreno dal quale spunterà l’albero del progressive non può che essere a mio modesto avviso quello del jazz – in particolare bebop e free jazz – proprio perché esso offre gli strumenti migliori per poter ampliare moltissimo le potenzialità espressive dei nuovi musicisti. Non a caso il testamento del cosiddetto jazz rock, Bitches Brew di Miles Davis, una delle opere più importanti del ‘900, arriverà proprio nel 1970, allo scoccare del decennio e quando il progressive rock si stava preparando ad invadere le collezioni di dischi. Soltanto un anno prima un altro disco fondamentale aveva aperto crepe irreparabili facendo scorgere ciò che si celava al di là del consueto musicale: In the Court of the Crimson King dei King Crimson, summa delle tre caratteristiche del prog di apertura verso nuovi linguaggi, assimilazione e potenza narrativa. Un mosaico raffinatissimo che non solo riesce ad incarnare un intero genere ma che, come ogni vero capolavoro, lo supera per trasfigurarlo in qualcos’altro. Bitches Brew e In the Court of the Crimson King sono due terremoti che spostano i continenti della musica popolare del secondo novecento: il primo indica la nuova strada al jazz, il secondo al rock. Entrambi però si riflettono l’uno nell’altro, riuscendo ad andare oltre le rispettive tradizioni musicali per ritrovarsi miracolosamente in un luogo ancora oggi sconosciuto e al di là di generi ed etichette: quello del dominio dell’arte.

A mio avviso, ascoltare un album prog si avvicina molto all’esperienza della lettura di un romanzo o alla visione di un film. Progressive, progressione: passaggio fluido, graduale e costante da uno stadio ad un altro, proprio come le micro sequenze di cui si compone un’opera cinematografica o le pagine di una storia. Il fascino di questo genere è proprio questo: mettere su un disco è come sedersi intorno ad un fuoco, indossare le cuffie come prepararsi ad ascoltare ad occhi spalancati pronti per essere inondati di meraviglia, stupore e terrore. Il prog preferisce raccontare le sue storie tramite suoni e ritmi, perché a volte le parole dei testi sono superflue ed inadeguate, ed è meglio quindi affidarsi a brani completamente strumentali o che prevedano lunghe parti strumentali. La stessa capacità tecnica dei musicisti sugli strumenti deve essere sopraffina ed eclettica proprio perché deve assecondare al meglio questa qualità narrativa del prog: non scrivi un brano come Knots dei Gentle Giant se sai fare solo il giro di DO maggiore suonando accordi aperti.


Ho spesso sentito appellare il progressive rock come un genere “fine a se stesso”, “pomposo”, “freddo”, “sterile”, dedito ad inutili circonvoluzioni mentali. Può darsi… ma sti cazzi! È come criticare il metal perché è chiassoso o il funky perché troppo movimentato: semplicemente senza senso. L’errore di prospettiva risiede nel percepire come sterile manierismo ed esagerato protagonismo quella che invece è stata voglia di forzare i codici della forma canzone della musica popolare fra gli anni ’50 e ’60, processo che è passato anche attraverso l’estremizzazione delle jam di stampo psych rock in una chiave più tecnica e ricercata. Bisognerebbe provare a calarsi un attimo nei panni di un musicista rock di fine anni ’60/primi ’70 per intravedere i limiti e le sovrastrutture che la sua musica si stava ormai portando dietro da almeno vent’anni: a noi, ascoltatori del XXI secolo, tutto ciò sembra scontato ma all’epoca non lo era per niente. Detto con un esempio: se i Dream Theater possono permettersi di costruire un’intera carriera su un’idea di musica muscolare e basata sull’ostentazione tecnica prendendo a modello gli Emerson, Lake & Palmer, questo non significa automaticamente che gli ELP suonino come i Dream Theater. I presupposti delle due band sono diversi.

Per non parlare poi dell’accusa di essere un genere “freddo”, incapace cioè di aprirsi ad un qualsiasi gusto della melodia o ad una sequenza melodica che possa facilmente essere memorizzata. Niente di più falso: i dischi prog degli anni ’70, e in particolar modo i classici pubblicati nel 1972, traboccano di melodie, molte delle quali facilmente orecchiabili e che possono essere fischiettate sotto la doccia. Anche qui: l’errore risiede a mio avviso nel concentrarsi troppo sulla struttura dei brani che, come già detto, cercano di andare oltre gli stilemi canonici dell’epoca, ignorando il resto. Anzi, proprio i gruppi più sinfonici come Yes, ELP e Genesis sono probabilmente quelli più facilmente orecchiabili; basti ad esempio pensare al comparto vocale, pesantemente debitore della sensibilità melodica degli anni ’60.


Un genere come il progressive molto probabilmente oggi non potrebbe nascere, e per tutta una serie di ragioni, inclusa anche quella della riduzione del tempo d’ascolto. Ovviamente gruppi prog continuano ad esistere e a suonare, ma il punto è che il genere in sé ha perso rilevanza generale rispetto a quanto invece succedeva cinquant’anni fa. Ciò che rimane oggi, oltre ad una caterva di dischi meravigliosi ai quali ha contribuito in maniera fondamentale anche l’Italia, è quella capacità del prog di fare da ponte verso una miriade di sottogeneri, filoni e movimenti musicali d’avanguardia, che per chi si affaccia per la prima volta su questo mondo costituisce una piccola mappa insostituibile ed inestimabile. Chi intraprende quel rischioso e meraviglioso percorso che lo condurrà per la selva oscura della musica meno commerciale o anti commerciale, non può prescindere dal prog. Il progressive come metagenere, per l’appunto. Prima o poi ci si imbatte in esso, e da quel momento in poi diventerà il proprio Virgilio.