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Il campionato musicale Boomers vs Millennials ha rotto il cazzo

Viviamo in tempi terribili e allucinanti, e no, non mi riferisco solo al fatto che i propri tweet e post sui social possano diventare di tendenza a nostra insaputa nel giro di pochi minuti rovinandoci la vita, alla prospettiva dell’annichilimento ambientale o che ci sia effettivamente gente che considera i carlini dei cani meravigliosi. La presunta battaglia fra boomers e millennials è uno degli ultimi prodotti di una cultura che pone persone e generazioni gli uni contro gli altri, quando i problemi sistemici attuali che affliggono la società e il mondo interessano tutti, e da tutti quindi andrebbero affrontati. Ovvio che ci sia anche una percentuale di cazzeggio e di aspetto ludico in questa faccenda dei boomers contro i millennials e viceversa; così come anche è giusto che le nuove generazioni cerchino di rimarcare le differenze da quelle passate per ricercare una propria identità. Ma a mio avviso tutta la questione è un po’ sfuggita di mano, amplificata, rinforzata e diffusa come al solito dai media, social in primis. Si dimentica che c’è del buono e del cattivo in entrambe le categorie: non serve a niente sparare frasi fatte del tipo “i giovani di oggi sono pigri, senza valori e abituati ad avere tutto e subito” se poi proprio tu, boomer, rimani attaccato come una cozza ai tuoi privilegi (magari immeritati) ed hai instillato nei tuoi figli (millennials, guarda caso) il culto del consumismo e dell’edonismo per poter fare bella figura in società; così come non serve altrettanto a nulla deridere gli stessi boomers accusandoli di essere insensibili, egoisti e dalla mentalità chiusa, se poi te, millennial, preferisci fare la parte della vittima sui social senza invece organizzarti, protestare e combattere contro ciò che ritieni che non vada bene.

Insomma, il problema come al solito è fare di tutta l’erba un fascio, quando invece razionalità vorrebbe che ci fosse un minimo di discrimine per meglio comprendere fenomeni, situazioni ed eventi. Ma siamo tutti stanchi, magari poveri come la merda ed anche alquanto incazzati, e fa sempre comodo prendersela con gli altri per tutto ciò che non va nella nostra vita. E poi sappiamo bene che le analisi sociologiche non funzionano nell’odierna epoca della (mancata) comunicazione, di certo non attirano like e condivisioni quanto invece potrebbero fare una frasetta ad effetto o un memimo creati per ricevere attenzioni dalla propria cerchia sociale.

Tutto questo inutile panegirico per ricordare un altro aspetto a mio avviso interessante: la dissonanza cognitiva tramite la quale l’industria culturale cerca di farci vivere vite non nostre riesumando prodotti culturali del passato, dalla musica al cinema, dalla moda alla letteratura, soprattutto quelli degli anni ’70/’80/’90 (e si iniziano a riciclare pure i primi anni 2000). Parlo di dissonanza perché da una parte si alimenta l’insensata guerra “Boomers vs Millennials” dove le due parti in causa cercano di prendere le distanze le une dalle altre; nello stesso tempo però si fa di tutto per rievocare un passato mitico – anzi, mitizzato – sbattendo in faccia alle generazioni contemporanee mondi che non appartengono a loro (ma che ben infiocchettati e venduti possono sempre far presa, vedi un caso clamoroso come Stranger Things) ed impedendo quindi all’immaginario collettivo di assumere nuove ed imprevedibili forme. Eppure di roba nuova da raccontare ce ne sarebbe a bizzeffe, solo che all’industria culturale contemporanea interessa solo tirare a campare e mantenere in piedi l’intero baraccone, e quindi giù di remake, reboot, revival, rifacimenti, riesumazioni, citazioni e via dicendo. Un millennials o un appartenente alla Generazione Z che fa binge watching su Stranger Things o sull’ennesima serie con ambientazione anni ’90 non suona un po’ strano? O il fatto che un pezzo come Running Up That Hill (A Deal with God) ritorni in classifica dopo ben trentasette anni? Fa ovviamente molto piacere che un’artista enorme come Kate Bush faccia di nuovo parlare di sé, ma nello stesso tempo è impossibile non notare come almeno negli ultimi dieci anni la retromania abbia quasi completamente dominato il panorama culturale odierno. L’ambito musicale mainstream è stato particolarmente interessato dal revivalismo. I Maneskin, sotto questo punto di vista, sono il prodotto perfetto perché riescono a capitalizzare sia la nostalgia dei boomers, coprendo con la loro musica e l’immaginario di riferimento un periodo molto vasto che va dai ’70 ai primi anni ’90, e sia la voglia di melodie facili del pubblico generalista e che ammiccano ai gusti dei millennials.

Kate Bush che mira ad un assegno a sei zeri dopo essere finita in Stranger Things


Avevamo davvero bisogno del ritorno di Avril Lavigne (mentre lo scrivo stento a crederci io stesso…), una quasi quarantenne che gioca ancora a fare l’adolescente come all’epoca di Sk8ter Boi? E che dire di ritrovati bellici che sembravano ormai sepolti dal tempo come i Gazosa? Tutte queste operazioni commerciali giocano sull’effetto nostalgia perché è molto più facile promuovere ciò che già si conosce invece che puntare e rischiare su nomi nuovi e freschi. CEO e presidenti di compagnie quotate in borsa blaterano sull’importanza di investire per offrire ai consumatori prodotti di qualità, quando invece la realtà è solo una: fare cassa. Zero coraggio, zero rischio, zero opportunità. Con effetti alla fine paradossali e con un generale impoverimento per le masse e per chi davvero tiene alla musica di qualità, la quale viene relegata giorno dopo giorno nei circoli underground.

Le attuali generazioni vivono immersi quindi in questa dissonanza – attrazione che diventa feticizzazione per i prodotti musicali del passato, rifiuto di una buona parte di quella visione del mondo plasmata dagli ultimi sessant’anni. Ovviamente l’attrazione non è verso tutta la musica del passato (sarebbe alquanto strano) ma solo verso ciò che meglio può essere riadattato al presente vissuto da millennials e Gen Z. Per questo Rolling Stones può buttare giù un articolo in cui fa un elenco di alcuni dischi amati dai boomers ma ignorati dai millennials. Il titolo è chiaro: “40 album amati dai baby boomers e sconosciuti ai millennials”. L’accento, come spesso accade, è sulla presunta ignoranza musicale delle nuove generazioni verso ciò che concerne le vecchie. Assai raramente avviene il contrario. Perché non ci si domanda se anche i boomers conoscono i dischi che piacciono ai millennials? Perché il passato deve essere sempre considerato più importante del presente? Mi sembra che lo snobbismo musicale sia più marcato nelle vecchie generazioni anziché nelle nuove. Musicalmente parlando, boomers e Generazione X hanno fra loro molto più in comune che con millennials e Gen Z – c’è molta più “affinità” fra Led Zeppelin e Nirvana che fra Marilyn Manson e Billie Eilish – ma questo non giustifica il fatto che ancora oggi debba persistere una certa idea di superiorità culturale del passato musicale nei confronti del presente. Forse è anche per questo che il revivalismo è una corrente molto forte nell’industria musicale odierna: il mito di un’età dell’oro che bisogna continuamente alimentare e tenere ben salda di fronte ai nostri occhi. Bisognerebbe invece andare al di là di queste inutili contrasti: ne guadagneremmo tutti, vecchie e nuove generazioni, perché di musica interessante, capace di aprire mondi sonori inimmaginabili, ce n’è ancora tantissima.
Cinquant’anni fa come l’anno scorso.

Mi permetto allora di provare a stilare alcuni dei dischi amati dai millennials e che, forse, le vecchie generazioni non conoscono. Ho lasciato fuori i nomi grossi – Radiohead, Beyoncé, Kanye West fra i tanti, giusto per capirci, anche se ho voluto includere Billie Eilish perché giovanissima e ancora con tanto potenziale da sfruttare – prediligendo nomi di culto ma che hanno lasciato comunque la loro impronta negli ultimi vent’anni di musica. Inutile dire che è una lista estremamente parziale (e che magari aggiornerò, chi lo sa). I boomers ne facciano quello che vogliono: magari scopriranno che ci sono molti più punti in comune con i loro gusti che differenze.

Godspeed You! Black Emperor – Lift Your Skinny Fists Like Antennas to Heaven (2000)

MF Doom – Madvillainy (2004)

Gorillaz – Demon Days (2005)

M.I.A. – Arular (2005)

Burial – Untrue (2007)

Sunn O))) – Monoliths & Dimensions (2009)

Flying Lotus –
Cosmogramma (2010)

Xiu Xiu – Dear God, I Hate Myself (2010)

Bon Iver – Bon Iver (2011)

Death Grips – The Money Store (2012)

Frank Ocean – Channel Orange (2012)

Arca – Mutant (2015)

Tyler, The Creator – Cherry Bomb (2015)

Sophie – Oil of Every Pearl’s Un-Insides (2018)

JPEG Mafia – Veteran (2018)

FKA Twigs – Magdalene (2019)

Poppy – I Disagree (2020)

Billie Eilish – Happier Than Ever (2021)

Poppy e la maschera, Poppy è la maschera

Ancora non ho scritto qui su Lividi e Musica quanto mi sia piaciuto e mi abbia colpito I Disagree, l’album di Poppy uscito nel gennaio del 2020, poco prima che il mondo decidesse di fermarsi. All’epoca non avevo mai sentito parlare di lei e del suo progetto, e l’album mi colpì come un fulmine in mezzo alla fronte stempiata. Lo trovai travolgente per la musica in esso contenuto, ma anche perché sembrava l’album giusto al momento giusto, il prologo al chaos che di lì a poco tutti quanti avremmo assaggiato. In particolare, mi colpì la riuscita mistura fra suoni pesanti e dissonanti chiaramente presi in prestito dal metal (qui il termine è da intendere in maniera alquanto elastica, qualcosa che può andare dai The Dillinger Escape Plan ai breakdown pesantissimi del deathcore, da Rob Zombie sino agli assoli melodici e tecnici) e le melodie zuccherose delle linee vocali cantante da Poppy, prese in prestito, queste, dalle sigle dei vostri anime preferiti e da un qualsiasi generalissimo album pop anni ’90. Il tutto immerso in una melma nera, densa e vischiosa come cemento, nonché tossica e rumorosa come certo industrial (qualcuno ha tirato in ballo anche i primi Marilyn Manson e NIN). Senza manco farsi mancare certe intuizioni progressive negli arrangiamenti e nei giochi fra gli strumenti. Sto esagerando? No, mi dispiace. Era come gustare un gelato con panna e chiodi arrugginiti.

Insomma, ho perso il conto di quante volte ho ascoltato questo brano, che riconosco forse non essere esattamente il più rappresentativo di I Disagree (per quello c’è il terzetto d’apertura di Concrete, la title-track e Bloodmoney), ma che trasmette follia ed esaurimento nervoso a profusione, come un pazzo travestito da clown che ti spacca i denti con la sua mazza da baseball mentre fa numeri buffi e goffi fra le risate del pubblico. E mentre la tua faccia è ricoperta del tuo stesso sangue e conti i denti caduti a terra, lì di fronte a te, la tua disperazione sale e ti rendi conto che sei tu lo spettacolo, non il clown.


APRO UNA PARENTESI

(e per favore, evitiamo di tirare in ballo quel circo delle Babymetal. Non c’entrano nulla con Poppy, sia musicalmente che per quanto riguarda l’immaginario di riferimento. Le Babymetal sono un normalissimo gruppo power/heavy metal cantato da tre giovani giapponesi, il che fa molta presa ed incuriosisce i giovani metallari occidentali; Poppy, semplicemente, non c’entra una sega con tutto ciò, si muove in direzione opposta. Molta gente, purtroppo, si lascia confondere per il semplice fatto che i due progetti condividono la stessa tipologia vocale e un certo immaginario kawaii, immaginario che Poppy lambisce solo di sfuggita e che per lei costituisce solo uno fra tanti. Sul serio si vorrebbero tirare in ballo le Babymetal dopo aver ascoltato un pezzo del genere, con un video del genere?

Dai, per piacere).

CHIUDO LA PARENTESI

E poi c’era lei, ovviamente, la stessa Poppy – per lo meno l’immagine che Mariah Rose Pereira aveva deciso di costruire su di sé e di offrire al mondo: una specie di ibrido fra Lolita e Harley Quinn, ora dominatrice, ora dominata; innocente e fragile, ad una prima occhiata, ma con un coltello più grosso della sua mano dietro alla schiena pronto a piantartelo in gola. La sua figura riflette la dualità della sua musica, muovendosi continuamente sulla linea che divide ed unisce purezza e contaminazione, tanto che lei stessa ha più volte definito il suo progetto post-gender. Un’etichetta che potrebbe suonare altisonante ma che riflette bene la natura elusiva e borderline di Poppy; personalmente la vedo come un aggiornamento di un’altra etichetta, quella di crossover, che andava in voga dalla fine degli anni ’80 e per tutti i ’90. D’altronde, Poppy non gioca solo con la sua musica ma anche con la sua identità: definirsi un artista post-gender, la cui estetica vuole mettere in discussione le categorie socialmente accettate e radicate di genere, significa quindi cercare di intercettare, dare un volto e una forma a sensibilità oggi sempre più presenti nel dibattito pubblico, soprattutto fra le nuove generazioni, e che investono la comunità lgbtq+. Non ho letto dichiarazioni esplicite di Poppy in tal senso, ma credo che tutta la sua arte faccia più di un occhiolino verso determinate tematiche e attinga a piene mani dal mondo queer.

Per dare un’idea a chi ancora non la conoscesse (credo che abbia molto più seguito negli Usa che in Europa e, soprattutto, in Italia), Poppy è passata dai suoi primi lavori synth-pop inutili come un frigo al Polo sud dove si presentava così:

al periodo I Disagree a cavallo fra 2019 e 2020, coinciso con la rottura con il suo produttore/ideatore/regista/compagno/manipolatore Titanic Sinclair, dove invece si è presentata così:

Terminator Poppy

Meglio no? A mio avviso è moooolto meglio.
Eppure questa trasformazione da innocente fanciulla dai colori pastello ad androide borchiata non è avvenuta in maniera repentina, di certo non in punto in bianco come la stessa Poppy vorrebbe far pensare. Basterebbe ascoltare gli ultimi tre pezzi di Am I A Girl?, l’album precedente ad I Disagree e all’allontanamento di Sinclair, per rendersene conto: anche lì sono presenti chitarre metal pesanti e dissonanti che accompagnano la tenue voce della bionda cantante, per non parlare del contrasto fra parti pesanti ed aggressive e quelle più aperte e ariose, una vera e propria tecnica di songwriting che farà la fortuna di I Disagree e che proprio qui viene introdotta per la prima volta. Il testo di Time Is Up, poi, è un inno alla futura distruzione della specie umana su base electro dance, dove la creatura Poppy si sostituisce al suo creatore per dare avvio alla sua opera di morte. In sostanza, quello fra il 2018 e il 2019 è una specie di interregno di un progetto che cercava una via di fuga dalla Poppy meme di internet per diventare qualcos’altro, probabilmente qualcosa dal maggiore impatto e che attirasse un pubblico quanto più possibilmente eterogeneo. Insomma, non si può certo dire che Poppy e Titanic Sinclair prima e poi la sola Poppy non abbiano saputo fiutare le possibilità che un simile progetto può presentare se opportunamente sfruttato.

Un aspetto da sottolineare, a mio parere, è che l’arte di Poppy trasmette nettamente la sensazione di continuo travalicamento di quella sottile linea che divide il personaggio mediatico dalla persona dietro alla maschera pubblica. Questa linea viene continuamente attraversata e spostata dalla stessa artista, che la sublima nella sua musica e nel suo immaginario. Si potrebbe quasi dire che la terribile esperienza di abuso che Poppy ha subìto per buona parte della sua carriera per mano del suo ex compagno Titanic Sinclair si sia travasata nella sua musica, innervando e costituendo l’intera visione estetica di Poppy. Il suo mondo, infatti, mette in scena spesso e volentieri dinamiche di potere fra dominatore e dominato, fra chi ne è detentore e chi lo subisce, fra un’autorità onnipotente e un burattino nelle mani altrui. Ma poi, guardando attentamente, si può trovare anche la reazione a tutto questo negativo: come in uno specchio che ribalta la prospettiva, alcuni pezzi della musicista parlano infatti di una ritrovata ed agognata identità, del recupero di nuovi spazi di libertà, di come l’arte possa spezzare vecchie catene. Il fatto che Poppy continui a cantare di questi temi anche dopo la fine della tossica relazione con Sinclair è indicativo del fatto che la musica possa davvero guarire ferite e dare un nuovo senso a vecchie esperienze, anche le più traumatiche.
Dov’è la maschera, quindi? Dove collocare quel confine fra artista e persona? Ed esiste veramente questo confine per Poppy? Ammesso che non esista, dove può condurre? A volte, un artista è costretto ad indossare una maschera per sopravvivenza; cosa succede se questa maschera lascia scoperto una parte del volto, facendo intravedere ciò che si voleva proteggere?

Anche per questi motivi, a mio avviso, la Poppy attuale, quella da I Disagree in poi, è qualcosa di unico all’interno del panorama pop più “alternativo” (qualunque cosa questo termine possa significare per voi), una figura interessante e stimolante dal punto di vista estetico vista la sua attitudine nel sapere coniugare gli estremi, conciliando immagini all’apparenza inconciliabili e capace di creare attraverso contrasti. L’ottima macchina di promozione alle spalle e il team di musicisti di supporto fanno il resto.

Gli ultimi due singoli recentemente pubblicati fanno intendere che Flux, il prossimo album di Poppy previsto per settembre, continuerà sulla scia di I Disagree, forse con meno “metal” nel sound generale e più rock anni ’90 come ingrediente principale, opportunamente modificato geneticamente. La title-track e Her suonano infatti come un mix fra Garbage, Hole, L7 e qualunque altro tipo di riot grrrl band che possa venire in mente. Come dite? I pezzi vi ricordano un po’ anche le Jack Off Jill? Esatto, e guarda caso la nostra carissima sosia di Piper Perry ha fatto una cover della loro Fear Of Dying. Come dite? Le Jack Off Jill sono state prodotte all’inizio della loro carriera nientepopo di meno che da Marilyn Manson? Ma guarda un po’, uno dei nomi che spuntano sempre fuori quando si parla di Poppy! Il cerchio si chiude, e ora possiamo tutti andare a nanna.



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Oh, allora, non vi siete stancati? Come? Cosa dite? La musica e l’immaginario degli ultimi trent’anni sono ritornati ormai di moda nel music business? Eccerto, perché altrimenti scomodarsi nel fare una cover di un pezzo come All the things she said, che pure le t.A.T.u. si sono ormai dimenticate di aver mai cantato?

Dai, ora a nanna, su.
Tutto andrà per il meglio.