Progetta un sito come questo con WordPress.com
Crea il tuo sito

Il campionato musicale Boomers vs Millennials ha rotto il cazzo

Viviamo in tempi terribili e allucinanti, e no, non mi riferisco solo al fatto che i propri tweet e post sui social possano diventare di tendenza a nostra insaputa nel giro di pochi minuti rovinandoci la vita, alla prospettiva dell’annichilimento ambientale o che ci sia effettivamente gente che considera i carlini dei cani meravigliosi. La presunta battaglia fra boomers e millennials è uno degli ultimi prodotti di una cultura che pone persone e generazioni gli uni contro gli altri, quando i problemi sistemici attuali che affliggono la società e il mondo interessano tutti, e da tutti quindi andrebbero affrontati. Ovvio che ci sia anche una percentuale di cazzeggio e di aspetto ludico in questa faccenda dei boomers contro i millennials e viceversa; così come anche è giusto che le nuove generazioni cerchino di rimarcare le differenze da quelle passate per ricercare una propria identità. Ma a mio avviso tutta la questione è un po’ sfuggita di mano, amplificata, rinforzata e diffusa come al solito dai media, social in primis. Si dimentica che c’è del buono e del cattivo in entrambe le categorie: non serve a niente sparare frasi fatte del tipo “i giovani di oggi sono pigri, senza valori e abituati ad avere tutto e subito” se poi proprio tu, boomer, rimani attaccato come una cozza ai tuoi privilegi (magari immeritati) ed hai instillato nei tuoi figli (millennials, guarda caso) il culto del consumismo e dell’edonismo per poter fare bella figura in società; così come non serve altrettanto a nulla deridere gli stessi boomers accusandoli di essere insensibili, egoisti e dalla mentalità chiusa, se poi te, millennial, preferisci fare la parte della vittima sui social senza invece organizzarti, protestare e combattere contro ciò che ritieni che non vada bene.

Insomma, il problema come al solito è fare di tutta l’erba un fascio, quando invece razionalità vorrebbe che ci fosse un minimo di discrimine per meglio comprendere fenomeni, situazioni ed eventi. Ma siamo tutti stanchi, magari poveri come la merda ed anche alquanto incazzati, e fa sempre comodo prendersela con gli altri per tutto ciò che non va nella nostra vita. E poi sappiamo bene che le analisi sociologiche non funzionano nell’odierna epoca della (mancata) comunicazione, di certo non attirano like e condivisioni quanto invece potrebbero fare una frasetta ad effetto o un memimo creati per ricevere attenzioni dalla propria cerchia sociale.

Tutto questo inutile panegirico per ricordare un altro aspetto a mio avviso interessante: la dissonanza cognitiva tramite la quale l’industria culturale cerca di farci vivere vite non nostre riesumando prodotti culturali del passato, dalla musica al cinema, dalla moda alla letteratura, soprattutto quelli degli anni ’70/’80/’90 (e si iniziano a riciclare pure i primi anni 2000). Parlo di dissonanza perché da una parte si alimenta l’insensata guerra “Boomers vs Millennials” dove le due parti in causa cercano di prendere le distanze le une dalle altre; nello stesso tempo però si fa di tutto per rievocare un passato mitico – anzi, mitizzato – sbattendo in faccia alle generazioni contemporanee mondi che non appartengono a loro (ma che ben infiocchettati e venduti possono sempre far presa, vedi un caso clamoroso come Stranger Things) ed impedendo quindi all’immaginario collettivo di assumere nuove ed imprevedibili forme. Eppure di roba nuova da raccontare ce ne sarebbe a bizzeffe, solo che all’industria culturale contemporanea interessa solo tirare a campare e mantenere in piedi l’intero baraccone, e quindi giù di remake, reboot, revival, rifacimenti, riesumazioni, citazioni e via dicendo. Un millennials o un appartenente alla Generazione Z che fa binge watching su Stranger Things o sull’ennesima serie con ambientazione anni ’90 non suona un po’ strano? O il fatto che un pezzo come Running Up That Hill (A Deal with God) ritorni in classifica dopo ben trentasette anni? Fa ovviamente molto piacere che un’artista enorme come Kate Bush faccia di nuovo parlare di sé, ma nello stesso tempo è impossibile non notare come almeno negli ultimi dieci anni la retromania abbia quasi completamente dominato il panorama culturale odierno. L’ambito musicale mainstream è stato particolarmente interessato dal revivalismo. I Maneskin, sotto questo punto di vista, sono il prodotto perfetto perché riescono a capitalizzare sia la nostalgia dei boomers, coprendo con la loro musica e l’immaginario di riferimento un periodo molto vasto che va dai ’70 ai primi anni ’90, e sia la voglia di melodie facili del pubblico generalista e che ammiccano ai gusti dei millennials.

Kate Bush che mira ad un assegno a sei zeri dopo essere finita in Stranger Things


Avevamo davvero bisogno del ritorno di Avril Lavigne (mentre lo scrivo stento a crederci io stesso…), una quasi quarantenne che gioca ancora a fare l’adolescente come all’epoca di Sk8ter Boi? E che dire di ritrovati bellici che sembravano ormai sepolti dal tempo come i Gazosa? Tutte queste operazioni commerciali giocano sull’effetto nostalgia perché è molto più facile promuovere ciò che già si conosce invece che puntare e rischiare su nomi nuovi e freschi. CEO e presidenti di compagnie quotate in borsa blaterano sull’importanza di investire per offrire ai consumatori prodotti di qualità, quando invece la realtà è solo una: fare cassa. Zero coraggio, zero rischio, zero opportunità. Con effetti alla fine paradossali e con un generale impoverimento per le masse e per chi davvero tiene alla musica di qualità, la quale viene relegata giorno dopo giorno nei circoli underground.

Le attuali generazioni vivono immersi quindi in questa dissonanza – attrazione che diventa feticizzazione per i prodotti musicali del passato, rifiuto di una buona parte di quella visione del mondo plasmata dagli ultimi sessant’anni. Ovviamente l’attrazione non è verso tutta la musica del passato (sarebbe alquanto strano) ma solo verso ciò che meglio può essere riadattato al presente vissuto da millennials e Gen Z. Per questo Rolling Stones può buttare giù un articolo in cui fa un elenco di alcuni dischi amati dai boomers ma ignorati dai millennials. Il titolo è chiaro: “40 album amati dai baby boomers e sconosciuti ai millennials”. L’accento, come spesso accade, è sulla presunta ignoranza musicale delle nuove generazioni verso ciò che concerne le vecchie. Assai raramente avviene il contrario. Perché non ci si domanda se anche i boomers conoscono i dischi che piacciono ai millennials? Perché il passato deve essere sempre considerato più importante del presente? Mi sembra che lo snobbismo musicale sia più marcato nelle vecchie generazioni anziché nelle nuove. Musicalmente parlando, boomers e Generazione X hanno fra loro molto più in comune che con millennials e Gen Z – c’è molta più “affinità” fra Led Zeppelin e Nirvana che fra Marilyn Manson e Billie Eilish – ma questo non giustifica il fatto che ancora oggi debba persistere una certa idea di superiorità culturale del passato musicale nei confronti del presente. Forse è anche per questo che il revivalismo è una corrente molto forte nell’industria musicale odierna: il mito di un’età dell’oro che bisogna continuamente alimentare e tenere ben salda di fronte ai nostri occhi. Bisognerebbe invece andare al di là di queste inutili contrasti: ne guadagneremmo tutti, vecchie e nuove generazioni, perché di musica interessante, capace di aprire mondi sonori inimmaginabili, ce n’è ancora tantissima.
Cinquant’anni fa come l’anno scorso.

Mi permetto allora di provare a stilare alcuni dei dischi amati dai millennials e che, forse, le vecchie generazioni non conoscono. Ho lasciato fuori i nomi grossi – Radiohead, Beyoncé, Kanye West fra i tanti, giusto per capirci, anche se ho voluto includere Billie Eilish perché giovanissima e ancora con tanto potenziale da sfruttare – prediligendo nomi di culto ma che hanno lasciato comunque la loro impronta negli ultimi vent’anni di musica. Inutile dire che è una lista estremamente parziale (e che magari aggiornerò, chi lo sa). I boomers ne facciano quello che vogliono: magari scopriranno che ci sono molti più punti in comune con i loro gusti che differenze.

Godspeed You! Black Emperor – Lift Your Skinny Fists Like Antennas to Heaven (2000)

MF Doom – Madvillainy (2004)

Gorillaz – Demon Days (2005)

M.I.A. – Arular (2005)

Burial – Untrue (2007)

Sunn O))) – Monoliths & Dimensions (2009)

Flying Lotus –
Cosmogramma (2010)

Xiu Xiu – Dear God, I Hate Myself (2010)

Bon Iver – Bon Iver (2011)

Death Grips – The Money Store (2012)

Frank Ocean – Channel Orange (2012)

Arca – Mutant (2015)

Tyler, The Creator – Cherry Bomb (2015)

Sophie – Oil of Every Pearl’s Un-Insides (2018)

JPEG Mafia – Veteran (2018)

FKA Twigs – Magdalene (2019)

Poppy – I Disagree (2020)

Billie Eilish – Happier Than Ever (2021)

Radio a Sonagli – Aprile 2022

Il tempo per ascoltare tutto ciò che si vorrebbe è sempre meno, accerchiato, ridotto e spremuto come un limone marcio fra le duemila inutili cose che la cosiddetta realtà pretende da noi. Non c’è tempo per nulla, per ascoltare, capire, analizzare, comprendere, usare il cervello ed eventualmente decidere pure di lanciarlo dal terzo piano. Non c’è tempo per decidere. Non c’è tempo per decidere perché sembra tutto già deciso. Da chi? Da cosa? Ognuno potrà spuntare la casella che più ritiene opportuna dal proprio taccuino dei rimpianti e dei buoni propositi rinviati a miglior tempo. Potessimo almeno guardarci allo specchio e scorgere qualcosa…

Il nuovo disco dei GGGOLDDD si guarda allo specchio e dichiara con un sussurro una verità semplice, chiara e limpida, e proprio per questo sconcertante e dolorosa: questa vergogna non dovrebbe essere mia. Chi me l’ha appiccicata addosso? Perché questo olezzo disgustoso che proviene dalla mia pelle? È quella condanna che va sotto il nome di senso di colpa, un marchio vecchio come il mondo e l’universo, anzi no, mondo e universo sono privi di colpa e quindi di senso di colpa, sono meravigliosi e splendenti come il sole che si irradia in una luce bianca e la luna che smuove le maree e che continueranno a farlo per chissà per quanti miliardi di anni, fino a quando quell’enorme lampadina lassù non scaricherà definitivamente le sue batterie. Ed allora anche il senso di colpa – vecchio come l’essere umano, questo si – scomparirà inghiottito dall’ombra eterna della notte, finalmente coperto da un lenzuolo come un freddo cadavere. Colpa, senso di colpa, condanna, controllo ed espiazione: stupidi concetti creati ad arte da uomini ciechi e vuoti per far sentire indifesi chi invece vorrebbe soltanto essere una piccola cosa libera e dal cuore semplice, e che verranno risucchiati in un attimo dal sole nero della notte, neanche dimenticati perché non potrà neppure esserci il ricordo. Violenza e sopraffazione, in tutte le sue forme, saranno azzerate, tutto sarà ridimensionato, ripensato, ricollocato ad una scala infinitamente più piccola; donne che hanno conosciuto questa vergogna indicibile per mano di uomini che si sono creduti Dio – ma piccoli come bambini – potranno finalmente trovare un po’ di pace, farsi aria, nuovo ossigeno, nuova terra, nuova erba, nuovi alberi, nuove nuvole, nuovi pianeti e nuovi soli. Nuova vita. Altrove, ovunque.

I didn’t see it coming

I shed some light on the ferocious complexity

I want the smell to leave me

I wanna shower till my skin comes off

Il resto è appunto vita musicale che scorre in rivoli chiaroscuri. Possono farsi turbolenti e torbidi, come l’ultimo degli Immolation, una dichiarazione di guerra e di rivolta contro Dio e i suoi profeti in buona e cattiva fede, anche lui invocando il sole nero dell’ultima notte, o, ancora, l’album omonimo di Corpsegrinder, che detta il ritmo possente dei tamburi della guerra prossima ventura e di quelle già in corso; fluidi e multicolore, come le canzoni dei Guerilla Toss, che più che canzoni sono deliri e visioni tossiche, ma di quella tossicità buona, dolce, che appanna i soliti cinque sensi per farne emergere altri dieci di cui non si conosce l’esistenza, fra cui quello che consente di vedere proiettate nella mente di chi ascolta le onde sonore della nostra voce e di surfare su arcobaleni multicolore per sentirsi (finalmente) vivi; freddi e glaciali come i tappeti sonori dei Cannibal Ox di The Cold Vein, nonché messianici come quel monolite impenetrabile di Irrlicht di quell’essere metà uomo e metà macchina proveniente dalla galassia Moog Klaus Schulze, entrambi robot deliranti, errori nelle equazioni che non dovrebbero esistere, e che tuttavia rivelano un’umanità più profonda dell’umano stesso, il bagliore dietro agli occhi di metallo dell’automa di Metropolis, un nuovo Big Bang esploso dalle frequenze degli eterni sintetizzatori al centro dell’universo; algidi e sinuosi, un gelato alla panna jazz con praline soul e r’n’b dal nome Tinted Shades da quel genietto di Joe Armon-Jones insieme alla voce delicata come il vetro di Fatima, e accecanti come una luce che lentamente si dischiude proprio al centro della stanza, un’apparizione che lascia intravedere l’altra parte dello specchio – Pang di Caroline Polachek, anche lei metà essere umano e metà macchina, ma perfezionata e portata a punto per l’umanità prossima futura, un essere polimorfo dalle profondità oceaniche che ricorda tutto, anche ciò che non ha mai veramente vissuto come gli anni ’80 di Songs from the Big Chair dei Tears for Fears, un oggetto musicale, questo, che riesce a scrollarsi di dosso la polvere accumulatasi in più di trent’anni di storia ad ogni ascolto, perfetto, rotondo, brillante, con un piede nel suo tempo e un piede altrove (e che, come i ricordi più belli o i traumi, riappare lì dove meno te lo aspetti, vedere alla voce Eat the Elephant degli A Perfect Circle).

Finché poi tutto – l’ascoltato e l’inascoltato, l’ascoltabile e l’inascoltabile – non verrà ancora una volta inghiottito dalla notte eterna del sole nero. Rimarrà solo Sirio a risplendere dalla Terra, mentre gli ultimi uomini guarderanno il cielo chiedendosi quale sia il luogo dove le stelle nere sono ancora appese.

Radio a Sonagli – Marzo 2022

Partiamo dal principio, dal titolo: non mi convince molto, anzi direi che “Radio a Sonagli” mi convince solo a metà. Mi dovete scusare ma oggi, mentre stavo guidando imbottigliato nel traffico nel tentativo disperato di tornare a casa dopo il lavoro, la mia mente stanca e altrettanto imbottigliata non è riuscita a partorire niente di meglio. Ma quindi cos’è “Radio a Sonagli”? Ah non lo so, non chiedetelo a me! Chiamarla rubrica mi suona troppo pretenzioso. Il suo scopo, però, quello si mi è chiaro: condividere gli ascolti mensili pubblicando una lista alla fine di ogni mese (il 30, il 31 o comunque giù di lì, si potrà sforare di un paio di giorni, ci vuole tolleranza in queste cose, lo sapete, soprattutto per un tipo come me allergico alle scadenze). Uno spazio, quindi, per tirare un po’ le somme e tenere delle tracce, una specie di aperta e chiusa parentesi nel fluire degli ascolti, che spesso diventan fiume incontrollato che rischia di sommergere ogni cosa, pure il piacere dell’ascolto.
Ad aiutarmi ci sarà Topster, ottimo per tirare giù questo tipo di elenchi (con tanto di copertine degli album, non è una cosa super carinissima e molto nerd?), se non lo conoscete vi suggerisco caldamente di farci un giro.

Ci stiamo ancora chiedendo perché questa cosa? Boh, merito del troppo tempo passato incolonnato nel traffico, probabilmente. Il fatto che mi sembri un’operazione divertente e un modo per condividere i miei ascolti con altri appassionati credo che possano bastare e avanzare come valide motivazioni. E poi sto blog va riempito con qualcosa, no? A parte tutto, la condivisione è ciò che sta alla base di RaS, nella speranza di avviare uno scambio di idee ed opinioni fra amanti della musica, ricevendo magari suggerimenti per ulteriori ascolti. E poi c’è un altro aspetto da considerare, un valore aggiunto non indifferente: come accennato, spero di riuscire a tenere traccia della roba che ascolto. Prima non ci facevo caso ma negli ultimi tempi mi sono posto a più riprese la questione di quali percorsi i miei ascolti hanno intrapreso. So da dove essi “vengono”, posso tracciare la loro origine (ricordo ancora il primo CD acquistato, What’s the Story (Morning Glory) degli Oasis, un disco che mi ha introdotto in maniera molto soft nel reame del rock, l’allora via privilegiata per il me adolescente che si apprestava a scorazzare per le vaste e luminose praterie della musica come un cowboy), gli sviluppi avvenuti negli anni, le strade senza vie d’uscita e le differenti ramificazioni. E poi, ovviamente, durante diversi periodi della vita sono corrisposti diversi tipi di ascolti, come accade tuttora e come succede a tantissimi.
In questo momento della mia vita (quale momento? che significa questo termine? dove e inizia e dove finisce, se mai finisce questo fantomatico momento? Quanta arbitrarietà che racchiude questa parola) sono arrivato ad un punto in cui riesco a percepire che la mia predisposizione all’ascolto è quanto più aperta possibile. Possono esserci dei periodi più o meno lunghi in cui magari mi concentro ad ascoltare poche cose perché in quel preciso istante ne ho bisogno, oppure perché voglio vedere come suona qualcosa che conosco a distanza di tempo (ed è successo proprio così per quanto riguarda alcuni dischi in questo elenco di Marzo). Ma ciò che sto ascoltando, per quanto un album o un artista mi abbiano potuto colpire, non diventerà mai esclusivo, bensì un trampolino per poi scoprire dell’altro, ciò che sta oltre quel tipo di musica. Per arrivare anche all’opposto di certe sonorità. Non mi ha mai attirato l’idea del gruppo preferito/artista preferito, non è mai stato realmente il mio modo di vivere la musica, da fan. Sarebbe stato come legarsi ad una sola persona per tutta la vita. La musica, invece, dà la possibilità di vivere in maniera libera ed aperta il nostro rapporto con essa; anzi, credo che per sua natura essa ci sproni quanto più possibile in questa direzione. Rispetto alle altre arti, parla direttamente alla parte più profonda di noi, quella che sfugge al nostro controllo, addentrandosi in luoghi imperscrutabili. Evoca realtà invisibili, eppure più reali del reale stesso. La musica è una cosa grande e spaventosa anche per questo. Personalmente, riuscire a mantenere questa apertura all’ascolto significa godere quanto più possibile di ciò che la musica ha da offrire; privarsene eleggendo un artista, un genere o una corrente al rango di “assoluto musicale” significherebbe rinunciare alla libertà di scegliere.

Ciò che salta subito agli occhi nell’elenco di Marzo è l’assenza di nuove uscite: il disco più recente è 777 – Cosmosophy dei Blut Aus Nord, uscito nel 2012. Non c’è una ragione precisa se non quella che durante i primi mesi dell’anno di solito ascolto ancora roba uscita durante l’anno precedente (ho una lista lunghissima che non riesco mai a smaltire), mentre aspetto che la roba nuova esca man mano per poi iniziare ad ascoltarla per bene più in là. E poi vale sempre la regola aurea number one: ascoltare il cazzo che ci pare, ed ascoltarlo bene. In questo senso, la presenza di tutti quei dischi progressive – Emerson, Lake & Palmer, Balletto di Bronzo, Genesis & co. – è stata dettata dal fatto che ho sentito la necessità di riascoltare un po’ di quei suoni vintage, forse per rievocare un periodo storico lontanissimo dalla mia generazione. Insomma, un tuffo nel passato, fatto tramite un genere, il prog, che riesce letteralmente a far viaggiare la mente grazie alla sua intrinseca capacità narrativa. La grande scoperta sono stati i Greenslade, il cui debutto del ’73 è una perla del genere grazie ad un mix atomico di prog intriso di funk e r’n’b, una formula che li differenzia da altre formazioni del genere di quel periodo. Valore aggiunto assolutamente non indifferente: in quel disco si possono ascoltare quelle che a mio parere sono le migliori linee di basso per un album prog, suonate da Tony Reeves, jazzista inglese prestato all’ambito rock, le cui dita non stanno MAI ferme. Semplicemente una meraviglia. Inoltre, sono arrivato alla conclusione che A Trick of the Tail è uno dei miei album preferiti dei Genesis, nonché il mio album post-Peter Gabriel preferito, stacce! Si percepisce che Wind & Wuthering inizia a virare verso altri lidi, quelli pop anni ’80, che a volte bisticciano con le costruzioni tipicamente progressive e sinfoniche. Eppure, il fascino di quel disco potrebbe risiedere proprio in questa dualità, nei suoni più rotondi e in un approccio complessivamente più accessibile per l’ascoltatore. Con l’addio di Gabriel, il gruppo inglese perde la sua maschera istrionica, e da folle giullare si trasforma in un musicista in giacca e cravatta, attento ad ogni minimo dettaglio e maniaco del controllo. Ognuno deciderà a seconda dei propri gusti se sia stato un bene o un male, ad ogni modo reputo Wind & Wuhtering un disco molto influente per il prog degli anni ’80.
Marzo è stato anche il mese della scomparsa di Mark Lanegan, e non ho potuto far altro che riascoltare almeno i suoi primi due album insieme agli Screaming Trees, che mi hanno letteralmente accompagnato per tutte queste settimane. Nonostante stiamo parlando di musica uscita circa trent’anni fa, The Winding Sheet e Whiskey for the Holy Ghost – il mio preferito del Lanegan solista – sono invecchiati molto bene come un buon whiskey. Il primo, a mio avviso, è il miglior esempio di un riuscitissimo mix fra sensibilità grunge ed essenzialità folk, che, anche se non completamente formato, mostra tutto il talento prematuro di Lanegan, talento che sboccerà compiutamente con il successivo Whiskey for the Holy Ghost e che permetterà al musicista di piazzarsi direttamente affianco al miglior Nick Cave e Tom Waits. Un’opera, quella del 1994 che, nonostante racconta il proprio inferno personale, riesce a descrivere quello di tutti.
Per amor di completismo, due dischi che sono sempre mancati all’appello sono stati Presence dei Led Zeppelin e Down on the Upside dei Soundgarden, due gruppi legati fra loro dalla stessa elettrica e tellurica energia, rispettivamente padri e figli (quest’ultimi più che legittimi) dagli esiti, in questo caso, assai differenti, visto che i figli sono riusciti a superare abbondantemente i padri. Presence, a parte un paio di episodi come Achilles Last Stand e Nobody’s Fault but Mine, mi ha dato l’idea di un gruppo ormai stanco e a fiato corto, la versione pallida e annoiata dei Led Zeppelin dei primi ’70, forse consapevoli della loro fine imminente. Il cambio di approccio, meno muscolare e deprivato dell’aspetto prettamente “hard” della loro musica, sarebbe potuto essere molto interessante e dagli esiti imprevedibili; il tutto però si risolve in un disco tutto sommato stanco, semplicemente ascoltabile ma con la pretesa – e qui risiede, secondo me, il problema alla base del disco – di riproporre pari pari gli stessi, soliti Zeppellin, cambiandone semplicemente la patina esteriore. Presence suona come un’occasione mancata, mettendo malamente fine a quella seconda fase della carriera del gruppo inglese che aveva portato alla nascita di due capolavori come Houses of the Holy e Physical Graffiti. (Nota a margine: mi sono sempre chiesto il perché di quella copertina, inusuale per una band come i Led Zeppelin. Mettendo insieme il titolo del disco, la disposizione circolare dei soggetti e il misterioso oggetto al centro del tavolo, sono arrivato alla conclusione che potrebbe riferirsi ad una sorta di seduta spiritica, evocazione o qualcosa del genere. Chi conosce l’interesse per la mitologia e l’esoterismo di Page e compagni, credo che non avrebbe problemi ad accogliere questa ipotesi).
Tutto il contrario invece per l’ultimo disco (prima della reunion) dei Soundgarden, un’opera capace a mio avviso di essere all’altezza di Superunknown e che affina ulteriormente, se possibile, le capacità di songwriting di Cornell e compagni. Down on the Upside ha solo la doppia sfiga di essere uscito dopo il disco di maggior successo commerciale della band di Seattle e di essere stato l’ultimo lascito prima dello scioglimento, andrebbe invece riscoperto e tenuto maggiormente in considerazione.

Il resto dell’elenco è tutta roba che ho voluto riascoltare per (ri)vedere l’effetto che fa a distanza di anni, e mi riferisco soprattutto ai Pink Floyd – The Division Bell è il loro album verso il quale provo maggiori sentimenti contrastanti, a tratti mi sembra un disco di Gilmour solista, mentre risulta molto buono Obscured by Clouds, vario e capace di anticipare un po’ di cose che si materializzeranno su The Dark Side of the Moon.
Il black metal dei Sargeist, Blut Aus Nord e Wolves in the Throne Room perché si, un po’ di violenza ci sta sempre, così come il jazz, ce lo devi infilare perché se no stai vivendo una vita di merda, e allora guardi la copertina di Miles Smiles e vedi Miles Davis che sorride compiaciuto, e quello ti trasmette tranquillità e un profondo senso di pace, e così pensi: “Ma quale altro disco jazz mi fa sentire così? Neanche la droga, guarda”. E continui a ridere e a sorridere.
Starsailor, Moondog e Y fanno parte di questa lista che ho deciso di seguire per scoprire cose che non conosco oppure per riascoltare con orecchie diverse roba che non ascolto da un sacco. Sono 500 dischi, se dopo un mese ne sono riuscito a riascoltare solo tre con i miei tempi finirò quando sarò in punto di morte…

Per chi invece ha più tempo e vuole ascoltarsi una traccia presa da ogni disco nella lista, ho fatto una apposita compilation su Spotify. Vedrò di farne una allegata ad ogni articolo di Radio a Sonagli, poi non dite che non vi penso!

Urla, terrore, ansia e raccapriccio, ovvero l’ennesima playlist di Halloween

Ma anche orrore paura follia trauma psicosi paranoia cospirazione massacro assassinio sangue tortura dolore piacere sadismo miseria colpa espiazione manie persecuzione spiriti morte anime dannazione benedizione oscurità luce abisso disordine caos annientamento pazzia resurrezione unione decomposizione perdita odio amore sesso violenza dominio sacrificio corpo danza pulsazione aria terra

Yep, it’s that time of the year again.

Su quarantasei pezzi, solo due hanno come titolo Halloween, e direi che è un buon risultato. Spunta fuori pure della roba rap, giusto per evitare l’equazione Halloween = rock e metal.


Inutile dire che la composizione più spaventosa è quella di Ligeti.
Special guest: Chopin.
Very special guest: Krysztof Penderecki.
Very very special guest: David Lynch, perché si.


E no, mi dispiace ma non c’è il main theme di Halloween né nessun altro pezzo di Carpenter. A dire il vero, il tema del suo film più famoso c’è ma sotto un’altra veste. Premete play e lo scoprirete subito.














(No, non ci sono nemmeno i Ghostbusters)



Raccapricciatevi!

f

Iron Maiden, ovvero l’arte di suonare un’unica, lunga canzone

È passato un mese da quando Senjutsu, l’ultimo disco dei Maiden, ha fatto il suo trionfale ingresso fra le piattaforme di streaming, i negozi e le classifiche dei dischi più venduti (debuttando dritto dritto alla terza posizione di Billboard 200), e tutti, addetti ai lavori e fan, si stanno ancora scannando, criticando a vicenda e scervellando sui suoi ottanta minuti e passa di musica.
Già, ottanta minuti e passa… tanto dura il diciassettesimo album in studio del sestetto più acclamato del metal, e, detto sinceramente, per pubblicare un disco così lungo nell’anno domini 2021 bisogna avere due palle grosse così o essere completamente rincoglioniti. Non escluderei la seconda, non solo e non tanto per motivi meramente anagrafici (ormai Steve Harris & co. navigano allegramente verso la settantina), ma anche perché nei musicisti che operano a livelli del genere inizia a farsi largo una mentalità tutta particolare, che ti fa credere che qualsiasi scelta artistica andrai a fare sarà comunque quella giusta. Una specie di mantra che recita più o meno così: “in tutti questi anni è andata complessivamente bene – anzi, molto bene! – perché mai dovrebbe andare tutto a puttane proprio ora se si sta continuando imperterriti sulla stessa strada?”.

Eh già, perché mai dovrebbe andare tutto a puttane? Anche se i gli Iron Maiden pubblicassero un album di rutti e scorregge in contro tempo, i loro fan non volterebbero loro le spalle, così, di punto in bianco. Ad ogni modo, non è nemmeno una questione di quello che vogliono i fan, almeno non completamente, a differenza di come certi deliri vorrebbero far credere; è più una questione di quello che vogliono fare i Maiden stessi, perché quando arrivi a certi livelli di fatturato e l’etichetta per la quale lavori ti bacia le scarpe ti puoi permettere di fare quello che ti pare, e sti gran cazzi dei fan. Hai insomma il coltello dalla parte del manico, e questo Steve Harris lo sa benissimo. Parliamoci chiaro, chi scrive crede che, dal punto di vista meramente musicale, gli Iron Maiden non abbiano mai fatto un disco che si possa dire brutto, ma talmente brutto che verrebbe di buttare dalla finestra cd e stereo (per chi ancora li usa), pretendendo indietro non solo i soldi spesi ma anche i minuti della tua vita buttati ad ascoltare quella roba. E, sempre detto sinceramente, chi scrive crede anche che il sottoscritto sia tra i pochi – se non fra i pochissimi – a pensare ciò. È da poco più di vent’anni ormai, ovvero dalla pubblicazione di Brave New World, che il pubblico maideniano ha subito una lenta ma continua scissione che, anno dopo anno e album dopo album, si è rivelata sempre più profonda: da una parte i fan più old school, per usare un’etichetta abusata, quelli cioè affezionati ai decenni degli ’80 e dei ’90, i primi da idolatrare e i secondi da prendere con le pinze senza però rinnegare nulla; dall’altra, invece, i fan della new school, quelli che “il nuovo corso dei Maiden”, “gli Iron Maiden sperimentano col prog”, “voglio vedere un altro gruppo di sessantenni suonare così”. Insomma, na guerra fra faide che nemmeno in Game of Thrones.

The LOLeliness of the long distance runner



E per carità, ci sta, è bello e divertente scannarsi per queste cose, ed è anche comprensibile che un gruppo storico come gli Iron Maiden possa innescare determinate reazioni, tanto che fra il pubblico di una qualsiasi band K-pop e quello della band inglese non c’è più nessuna differenza (anzi no, c’è: se li fai incazzare, gli ascoltatori della prima ora dei Maiden ti blastano a tutto volume un pezzo della loro band preferita contro casa tua). D’altronde stiamo parlando di una band con quasi un quarto di secolo sulle spalle (!!!), diciassette album in studio, un repertorio di più di 150 pezzi, faraonici tour mondiali degni del Cirque du Soleil; è chiaro che ognuno veda il gruppo sotto una lente diversa, trasfigurata da emozioni, ricordi e sensazioni personali. Ognuno sente che la musica di quei sei musicisti è parte di sé, della propria storia e della propria biografia. La fa innegabilmente sua. Gruppi come gli Iron Maiden non entrano nella storia della musica solo perché hanno contribuito a creare ed ad ampliare un intero genere musicale, ma anche perché assumono un significato più grande, che investe milioni di persone e per questo va al di là dei singoli musicisti coinvolti in un progetto. Il significato di quella data musica diventa collettivo. Forse dovremmo ricordarcelo più spesso quando critichiamo aspramente e senza appello i gusti altrui, credendo di essere i detentori della “buona” musica e arte in generale. Nella stragrande maggioranza dei casi non lo siamo.

La frangia old school rimprovera ai Maiden di non essere più quelli di una volta (critica ovviamente ultra prevedibile, chettelodicoaffà), di essersi in qualche modo “rammolliti”, di aver perso quel quid metal che ha reso leggendari album come Seventh Son, Piece of Mind o Powerslave; quella new school esalta invece quello che è ritenuto come il nuovo corso del gruppo, foriero di nuovi capolavori capaci di rivaleggiare con quelli del passato e di nuovi stimoli.
Niente di nuovo sotto al sole, nemmeno le critiche appena riportate (anche se è difficile appellarle come tali, visto che si tratta più di fissazioni condivise e prese di posizioni aprioristiche). Domanda: la verità, come si suol dire, sta nel mezzo? Risposta: no, ma non sta né di lato, né sopra, né sotto. Meglio affermarlo subito una volta per tutte: dire che “la verità sta nel mezzo” è sempre stata una minchiata, perché è un modo paraculo per dare un colpo al cerchio e uno alla botte, perdendo di vista alla fine la realtà delle cose. E qui la realtà è che gli Iron Maiden hanno sempre suonato la stessa identica canzone, sin dall’omonimo album del 1980. Come ho già specificato altrove, lo stile dei Maiden era già tutto in nuce sin dall’inizio, e tutto ciò che è successo in seguito non è stato altro che lo sviluppo naturale e il rifinimento di quello stile. I Maiden non hanno mai sperimentato con i generi, non hanno portato mai avanti un discorso artistico che prevedesse la messa in discussione delle loro stesse premesse, né tanto meno hanno mai accennato a dei cambiamenti, minimi o radicali che siano. Ciò che hanno sempre fatto, in maniera molto scaltra e anche assai professionale, è sempre stato quello di attenersi rigorosamente ad un canovaccio (sviluppato da loro e per questo riconoscibile, senza dubbio), cercando di volta in volta di giocare con esso, e quindi mettendo in luce ora un certo aspetto del loro stile anziché un altro, sottolineando certi elementi invece che altri e così via. Ma cambi di registro o improvvise deviazioni da questo copione sono sempre state accuratamente evitate. Si potrebbe dire che gli Iron Maiden non sono mai stati avvezzi ai cambiamenti: d’altronde, non si costruisce un impero così duraturo a botte di metamorfosi e trasformazioni che rischiano di minare la fiducia di fan ed etichetta. D’altro canto, stiamo parlando di un gruppo che, da quando ha iniziato ad incidere dischi, ha affrontato cambiamenti di line-up minimi, ed anche quando ha subito il rimpiazzo più pesante, ovvero Blaze Bayley al posto di Bruce Dickinson, ha dovuto fare immediatamente dietro front richiamando in barca il precedente frontman insieme ad Adrian Smith.

L’old scul


Giocare quindi a farsi la guerra, come ormai si è abituati da qualche anno a questa parte ad ogni nuova uscita della band, risulta alquanto inutile. Ripetere che gli Iron Maiden sono “cambiati” – in meglio o in peggio ha molta poca importanza in questa sede – non ha senso perché da un punto di vista strettamente stilistico, in realtà, sono sempre rimasti gli stessi; così come ravvisare una presunta evoluzione nel loro modo di scrivere canzoni è altrettanto fuori luogo perché, ascoltando attentamente i loro dischi, si può tranquillamente notare come il songwriting sia rimasto immutato. Ciò che al massimo è cambiato è solo il tono e l’andamento dei brani, che, partendo gradualmente da Brave New World per poi arrivare a compimento con A Matter of Life and Death, iniziano ad abbandonare i ritmi veloci e più diretti per un approccio più quadrato e pieno di mid tempos, dove anche i riff si aprono per lasciare spazio agli accordi e dove le melodie vocali assumono ancora più importanza che in passato; l’atmosfera si fa sempre più drammatica, pomposa ed epica, quasi da colonna sonora, con canzoni adatte ad essere cantate a squarciagola negli stadi più che per il pogo. Ciò che però è fondamentale notare è che tutto ciò è sempre stato presente nello stile dei Maiden sin dagli albori, e non è qualcosa che è stato introdotto da un certo momento in poi, come se si volesse abdicare al proprio passato per tentare inusuali strade sonore. Semplicemente, il gruppo ha deciso di portare ancora più in evidenza certi elementi mettendone in ombra altri, come se avesse voluto ricalibrare o riequilibrare le sue ben note caratteristiche, portando poi avanti questo tipo di discorso artistico nel corso degli ultimi anni. Anche le tanto sbandierate parti prog non sono nulla di nuovo per il sestetto, visto che i Maiden hanno sempre indugiato in lunghe parti strumentali: l’unica ma grossa differenza è che questi inserti strumentali venivano un tempo integrati nei brani in maniera molto più compiuta ed armoniosa, senza mai perdere di vista la canzone e la sua unità, mentre oggi suonano per lo più come un modo per allungare il minutaggio, col risultato di appesantire le canzoni e di smorzare il coinvolgimento. Basta fare un confronto con i tanti dischi prog rock degli anni ’70, ai quali lo stesso Steve Harris dice di ispirarsi: il confronto è purtroppo impietoso.
Senjutsu si inserisce in questo discorso di ricalibrazione generale che il gruppo inglese porta avanti da due decenni a questa parte; anzi, lo conduce ancora di più alle sue estreme conseguenze, tanto che l’approccio bombastico (da arena rock, più che da disco heavy metal vero e proprio) degli ultimi Maiden viene questa volta ancor più messo in risalto.

Non mi aspetto che gli uni e gli altri schieramenti credano ad una sola virgola fin qui riportata. E va benissimo così.
Inviterei solo a fare un giochino, ovvero a mettere su il primo disco degli Iron Maiden e di ascoltarlo attentamente dall’inizio alla fine, anche se lo si è fatto migliaia di volte. Se lo amate non avrete difficoltà ad ascoltarlo ancora una volta. Solo che questa volta bisogna sforzarsi di ascoltarlo con orecchie diverse, in maniera più distaccata, più analitica, magari prendendo nota delle diverse parti nelle canzoni. Finito con quel disco, si mette su l’ultimo Senjutsu. Si, so già cosa staranno borbottando i fan old school, ma qui il punto non è farsi piacere il disco a tutti i costi ma ascoltarlo con maggior distacco e con mente più razionale. E soprattutto con un minimo di onestà intellettuale.
Al termine di questo giochino si potrà forse notare come i punti in comune fra i due album, divisi da ben 41 anni di differenza, non saranno forse tantissimi ma nemmeno così pochi come si possa credere. Se poi il giochino diventa intrigante, allora si potrà condurre la stessa operazione con altri dischi dei Maiden scelti fra quelli dei primi vent’anni di carriera e del nuovo secolo.

Perché gli Iron Maiden sono come la mamma: ce n’è una sola e quella non cambia mai.

La musica in Afghanistan è viva e vegeta, sono gli altri che sono morti

Il destino della musica in Afghanistan è oggi incerto. A distanza di quasi un mese da quando i Talebani hanno riconquistato il paese, musicisti, cantanti, strumentisti, arrangiatori, promotori, direttori d’orchestra e semplici ascoltatori vivono nel terrore che i suoni e i ritmi ritornati fra le strade di Kabul circa vent’anni fa possano lasciare ancora una volta spazio al silenzio.
Il neonato governo talebano non ha ancora rilasciato ordini precisi al riguardo, ma niente fa sperare per il meglio. Alla fine di agosto, Fawad Andarabi, noto cantante e musicista folk locale, è stato assassinato a colpi di arma da fuoco presso Andarab, a nord della capitale. Foto di strumenti danneggiati sono circolate sui social verso l’inizio di settembre, messe in rete dal cantante Aryan Khan. Notizie sulla messa al bando delle attività musicali sono giunte dalle provincie meridionali di Zabul e Kandahar. A questo punto, non è da escludere che il prossimo nonché prevedibile obiettivo possa essere l’Istituto Nazionale di Musica Afgano. I Talebani sono dei sanguinari assassini ma sanno che attaccare immediatamente determinate istituzioni non giocherebbe a loro favore, soprattutto in un momento in cui stanno cercando qualsiasi appiglio politico per essere riconosciuti a livello internazionale. Nel frattempo, potrebbero iniziare dalle piccole realtà, sopprimendo lentamente ma costantemente attraverso minacce e pressioni chi non ha i mezzi per difendersi pubblicamente.

D’altronde come dichiarato dal portavoce dei Talebani Zabihullah Mujahid: “Speriamo di poter persuadere le persone dal non fare queste cose [suonare ed ascoltare musica n.d.a.], invece che doverle forzare”. Tradotto: se non capiranno con le buone, dovremo passare alle maniere forti.
Sanguinari assassini, appunto.

La storia si ripete: l’odio e i metodi dei Talebani non sono qualcosa di completamente inedito. Ogni regime totalitario che si rispetti ha sempre preso di mira l’arte, per lo meno un certo tipo di arte, poiché potenziale veicolo di idee politiche e di visioni del mondo sovvertitrici e rivoluzionarie. L’arte si fruisce, è condivisione (a differenza del potere); le persone si radunano intorno all’arte, si rispecchiano in essa, costituisce un momento in cui si provano emozioni e sensazioni molteplici nello stesso istante. L’arte può far allontanare dal qui e ora per trasportare in un’altra dimensione, facendo vedere uomini ed eventi sotto un’altra prospettiva, cosa che un regime non vuole assolutamente che accada.

È necessario fare comunque una piccola ma importante precisazione per quanto riguarda il divieto talebano sulla musica. Come specificato dall’etnomusicologo britannico John Baily, la proibizione riguarda esclusivamente la musica suonata e composta da e per gli strumenti musicali, ad eccezione del semplice tamburo. Canti di tipo religioso eseguiti senza l’ausilio di altri strumenti sono permessi, tant’è che gli stessi Talebani cantano i loro taranas, delle particolari composizioni vocali derivate dalla tradizione musicale indù.
A conti fatti, ciò che i Talebani stanno imponendo non è altro ciò che fecero i regimi nazista e sovietico: bandire un certo tipo di arte non funzionale agli scopi ideologici del potere. Per i nazisti era tutta quella musica e arte da loro etichettata come “degenerata”, riferita soprattutto ai compositori contemporanei che, non a caso, furono costretti ad emigrare altrove per poter continuare a lavorare; per i sovietici erano tutte quelle opere che non esaltavano e raccontavano le glorie della rivoluzione e del suo futuro avvenire. La differenza risiede nel fatto che il veto talebano è di carattere religioso, perché secondo la loro interpretazione dell’Islam gli strumenti musicali distoglierebbero dalla preghiera e indurrebbero a comportamenti corrotti e peccaminosi contrari alla volontà divina.

Certo che se dovessimo ascoltare solo la musica talebana sarebbe na bella rottura di palle, eh! Per fortuna il mondo musicale di ogni paese è estremamente vario, e quello afgano non fa eccezione. Anzi, la sua cultura musicale è antichissima ed ha sempre costituito una delle testimonianze più importanti sul suono e sullo sviluppo culturale della musica.
Negli ultimi vent’anni – da quando i Talebani erano stati respinti fuori dai confini del paese in seguito all’invasione statunitense e degli alleati – la scena musicale afgana era tornata lentamente a rifiorire. L’insegnamento della musica era di nuovo aperto a tutti, anche alle donne, così come concerti ed eventi potevano essere tenuti senza il rischio di bagni di sangue. Ovviamente ciò era valido soprattutto nei grandi centri come Kabul, mentre nelle realtà non urbane e dell’entroterra continuavano a vigere regole molto severe su chi potesse fare arte e come usufruirne. Le cose non sono cambiate da un momento all’altro, naturalmente, e nonostante il cambio di regime le persone che volessero darsi alla musica – soprattutto le donne – dovevano stare molto attente. D’altronde non esistono solo i Talebani come fanatici religiosi.

Tutto ciò che di buono si era riuscito a costruire rischia molto probabilmente oggi di non esistere più. Di ritornare al punto di partenza. L’Afghanistan e la sua tradizione musicale sono le vittime non solo di un regime di esaltati assetati di potere, ma anche delle illusioni a buon mercato e dell’ipocrisia Occidentali. Un’ipocrisia che ha impiegato solo un mese di tempo per palesarsi in tutta la sua assurdità e tragicità. Un’ipocrisia ancora figlia di una visione coloniale del mondo, per la quale democrazia e uguaglianza non sono processi a cui si giunge e attraverso i quali un popolo decide come autodeterminarsi, ma strumenti, ancora una volta, di potere. Non è più un segreto che i comandi in carica dell’esercito statunitense abbiano costantemente mentito sui progressi inesistenti di una guerra condotta senza il minimo obiettivo e una strategia chiara. Così come la mancanza di conoscenza della cultura locale e della stessa idea di cosa volesse dire essere un popolo, hanno giocato un ruolo chiave nell’alienare la maggior parte della popolazione da ciò che stava avvenendo nei palazzi governativi presieduti da forze straniere viste come illegittime.
Agli afgani è stata privata la possibilità di scelta.

Di fronte alla violenza e all’ipocrisia, la musica dell’Afghanistan brilla ancora di più della sua luce autentica. Tributarne gli artisti potrebbe essere un modo per fare in modo che non tutto cada nell’oblio, come quando la polvere si innalza violentemente dopo l’ennesima esplosione. Che la memoria di suoni, ritmi e testi continui in qualche modo a vivere nelle emozioni di chi ascolta. Questo vorrebbe essere solo un piccolo tributo ad un paese ed alla sua musica, alla sua gente. Ovviamente i nomi qui riportati non sono che una piccola parte di ciò che l’Afghanistan ha da offrire, perché, come accennato, la scena musicale locale – nonché di coloro emigrati all’estero – è estremamente ricca.

Affinché un giorno questa musica possa ritornare ad essere suonata, cantata, ballata ed ascoltata liberamente, da donne e uomini liberi.
A tutta la musica che l’Afghanistan donerà ancora al mondo.

Burka Band
Il primo gruppo tutto al femminile mai uscito fuori dall’Afghanistan. E come tale, una vera e propria sfida al conservatorismo maschilista dei Talebani. Le Burka Band sono nate agli inizi del nuovo millennio, vestono tutte con il burqa sia per provocazione che per necessità, dovendo nascondere le proprie identità per non venire incarcerate o uccise. Il trio è nato a Kabul ma ha suonato in Germania, dove ha trovato un piccolo ma forte seguito, ed ha all’attivo un ep e un singolo, uscito fra l’altro proprio quest’anno. Attitudine 100% punk per una musica minimale che richiama certa new wave, con testi che sono spasso puro.

Qais Essar
Al giovane Qais Essar piace molto sperimentare, espandendo le possibilità della musica folklorica afgana attraverso l’incontro con strumenti come batteria, basso, violino e chitarra. Accompagnato dal suo fedele rubab, strumento classico della tradizione del suo paese, il musicista e produttore ha fatto concerti negli States, Canada ed Europa, componendo anche musiche per film e spettacoli. Nelle sue ultime produzioni si percepisce un tocco quasi post-rock, ma molto delicato ed etereo, esaltato dalle atmosfere tipiche evocate dal suo strumento principe.

Ustad Mohammad Omar
E a proposito di folk afgano e di rubab, Mohammad Omar (da non confondere con quell’altro capo talebano, guercio e stronzo) è una figura centrale nella storia della musica dell’Afghanistan, avendo contribuito ad ampliare ancora di più il repertorio dedicato al rubab e alla musica folklorica in generale. Ha ricoperto anche il ruolo di direttore dell’Orchestra Nazionale della Radio Afghana, dove ha fatto conoscere ai suoi concittadini la varietà di linguaggi dei vari gruppi etnici del loro paese. Nel 1974 è stato il primo afgano ad insegnare in un’università statunitense, presso la University of Washington; nel 1978, inoltre, ha collaborato con gli Embryo, gruppo rock/jazz sperimentale tedesco, con il quale ha suonato per una serie di concerti durante il tour in Medio Oriente della band. Il seguente video è la registrazione del concerto presso l’Università di Washington, concerto nel quale Mohammad Omar ha suonato per la prima volta il suo rubab di fronte ad un pubblico occidentale.

Homayoun Sakhi
Altra figura centrale del folk afgano, Homayoun Sakhi è considerato oggi uno dei maestri dell’arte del rubab, strumento che ha imparato dal padre sin da bambino. Trasferitosi negli Usa sin dall’inizio del nuovo millennio, è diventato nel tempo uno degli ambasciatori sia dello strumento classico che della musica tradizionale afgana, aprendo molteplici scuole di musica, collaborando insieme ad altri musicisti proveniente dalla sua stessa area e fondando i Voices of Afghanistan insieme a Mahwash, cantante fra le più note in Afghanistan. Inoltre, ha collaborato anche con i Kronos Quartet.

Mahwash
Con il raro titolo onorifico di Ustad (che significa “maestro”) concesso ad una donna, Mahwash è oggi una delle voci più amate e note in Afghanistan, una specie di corrispettivo afgano di Mina. Nata in una famiglia molto tradizionalista e conservatrice, Mahwash ha dovuto tenere nascoste le sue doti canore dalla famiglia fino al completamento degli studi universitari. Da quel momento in poi, per lei è stata tutta una strada in salita, costellata di successi e di importanti collaborazioni in patria, registrando principalmente canzoni e composizioni a cavallo tra pop e folk della tradizione afgana.

Ahmad Zahir
Se Mahawash è Mina, Ahmad Zahir è Lucio Battisti. Chiaro no? Basterebbe questo parallelismo per carpire tutta la grandezza, l’amore e il seguito popolare della voce del cantante. La sua figura è ancora oggi venerata da vecchie e nuove generazioni di ascoltatori e musicisti, in quanto Zahir riuscì a sintetizzare nel corso degli anni ’70 i suoni del suo paese con musiche provenienti dall’Occidente, come il rock e la chanson francese. Questa incorporazione di altri elementi musicali nei suoi pezzi fu possibile grazie ai suoi viaggi in Usa e in Europa, possibili visto che era il figlio del primo ministro afgano Abdul Zahir (in carica dal 1971 al 1972). Di certo un privilegiato rispetto alla maggior parte dei suoi connazionali, cosa che però non gli ha impedito di diventare il cantante più amato del paese, tanto da essere soprannominato “l’usignolo dell’Afghanistan”. Morì giovanissimo, a 33 anni, in un incidente stradale; i Talebani distrussero la sua tomba durante la guerra civile del 1996, per poi essere ricostruita dai fan nel 2003.

District Unknown
Immaginate di essere giovani, magari poco più che adolescenti, in un paese come l’Afghanistan. Magari avete visto alcuni video di gruppi rock e metal statunitensi ed europei su YouTube, e vi siete innamorati di quell’esplosione di energia fatta apposta per disintegrare tutte quelle catene che l’ambiente in cui siete cresciuti vi ha costantemente gettato addosso. Non si può escludere che sia andata realmente così per i District Unknown, band prog metal di Kabul nata nel 2008 e con all’attivo solo un album, Anatomy of a 24 Hour Lifetime, e un singolo, 64, scritto per commemorare le 64 persone morte durante un attacco suicida nell’aprile 2016 nella capitale. Le melodie vocali pescano a piene mani dallo stile dei Katatonia e degli Opeth, accompagnate da una sezione strumentale dal suono più contemporaneo, che vira in egual misura nel post-metal e in certe soluzioni alla Meshuggah. Neanche a dirlo, condividono lo stesso destino delle Burka Band, dovendo nascondere le loro identità durante i concerti per paura di possibili ritorsioni; la differenza sta nel fatto che il trio femminile non può fare musica in quanto composto da donne, i DU invece rischiano la vita per il tipo di musica proposta, prettamente occidentale, e l’attitudine più sfrontata e ribellista, almeno per i canoni dell’afgano medio. La band si è sciolta recentemente e, da quanto è possibile sapere, sia il cantante che il chitarrista si sono ricollocati fra Usa e UK suonando in un nuovo progetto, gli Afreet, il cui ultimo singolo, My Land is Breaking, è stato composto per raccogliere fondi per aiutare i musicisti afgani ad evacuare dal paese (è possibile ascoltare e donare qui).

Poppy e la maschera, Poppy è la maschera

Ancora non ho scritto qui su Lividi e Musica quanto mi sia piaciuto e mi abbia colpito I Disagree, l’album di Poppy uscito nel gennaio del 2020, poco prima che il mondo decidesse di fermarsi. All’epoca non avevo mai sentito parlare di lei e del suo progetto, e l’album mi colpì come un fulmine in mezzo alla fronte stempiata. Lo trovai travolgente per la musica in esso contenuto, ma anche perché sembrava l’album giusto al momento giusto, il prologo al chaos che di lì a poco tutti quanti avremmo assaggiato. In particolare, mi colpì la riuscita mistura fra suoni pesanti e dissonanti chiaramente presi in prestito dal metal (qui il termine è da intendere in maniera alquanto elastica, qualcosa che può andare dai The Dillinger Escape Plan ai breakdown pesantissimi del deathcore, da Rob Zombie sino agli assoli melodici e tecnici) e le melodie zuccherose delle linee vocali cantante da Poppy, prese in prestito, queste, dalle sigle dei vostri anime preferiti e da un qualsiasi generalissimo album pop anni ’90. Il tutto immerso in una melma nera, densa e vischiosa come cemento, nonché tossica e rumorosa come certo industrial (qualcuno ha tirato in ballo anche i primi Marilyn Manson e NIN). Senza manco farsi mancare certe intuizioni progressive negli arrangiamenti e nei giochi fra gli strumenti. Sto esagerando? No, mi dispiace. Era come gustare un gelato con panna e chiodi arrugginiti.

Insomma, ho perso il conto di quante volte ho ascoltato questo brano, che riconosco forse non essere esattamente il più rappresentativo di I Disagree (per quello c’è il terzetto d’apertura di Concrete, la title-track e Bloodmoney), ma che trasmette follia ed esaurimento nervoso a profusione, come un pazzo travestito da clown che ti spacca i denti con la sua mazza da baseball mentre fa numeri buffi e goffi fra le risate del pubblico. E mentre la tua faccia è ricoperta del tuo stesso sangue e conti i denti caduti a terra, lì di fronte a te, la tua disperazione sale e ti rendi conto che sei tu lo spettacolo, non il clown.


APRO UNA PARENTESI

(e per favore, evitiamo di tirare in ballo quel circo delle Babymetal. Non c’entrano nulla con Poppy, sia musicalmente che per quanto riguarda l’immaginario di riferimento. Le Babymetal sono un normalissimo gruppo power/heavy metal cantato da tre giovani giapponesi, il che fa molta presa ed incuriosisce i giovani metallari occidentali; Poppy, semplicemente, non c’entra una sega con tutto ciò, si muove in direzione opposta. Molta gente, purtroppo, si lascia confondere per il semplice fatto che i due progetti condividono la stessa tipologia vocale e un certo immaginario kawaii, immaginario che Poppy lambisce solo di sfuggita e che per lei costituisce solo uno fra tanti. Sul serio si vorrebbero tirare in ballo le Babymetal dopo aver ascoltato un pezzo del genere, con un video del genere?

Dai, per piacere).

CHIUDO LA PARENTESI

E poi c’era lei, ovviamente, la stessa Poppy – per lo meno l’immagine che Mariah Rose Pereira aveva deciso di costruire su di sé e di offrire al mondo: una specie di ibrido fra Lolita e Harley Quinn, ora dominatrice, ora dominata; innocente e fragile, ad una prima occhiata, ma con un coltello più grosso della sua mano dietro alla schiena pronto a piantartelo in gola. La sua figura riflette la dualità della sua musica, muovendosi continuamente sulla linea che divide ed unisce purezza e contaminazione, tanto che lei stessa ha più volte definito il suo progetto post-gender. Un’etichetta che potrebbe suonare altisonante ma che riflette bene la natura elusiva e borderline di Poppy; personalmente la vedo come un aggiornamento di un’altra etichetta, quella di crossover, che andava in voga dalla fine degli anni ’80 e per tutti i ’90. D’altronde, Poppy non gioca solo con la sua musica ma anche con la sua identità: definirsi un artista post-gender, la cui estetica vuole mettere in discussione le categorie socialmente accettate e radicate di genere, significa quindi cercare di intercettare, dare un volto e una forma a sensibilità oggi sempre più presenti nel dibattito pubblico, soprattutto fra le nuove generazioni, e che investono la comunità lgbtq+. Non ho letto dichiarazioni esplicite di Poppy in tal senso, ma credo che tutta la sua arte faccia più di un occhiolino verso determinate tematiche e attinga a piene mani dal mondo queer.

Per dare un’idea a chi ancora non la conoscesse (credo che abbia molto più seguito negli Usa che in Europa e, soprattutto, in Italia), Poppy è passata dai suoi primi lavori synth-pop inutili come un frigo al Polo sud dove si presentava così:

al periodo I Disagree a cavallo fra 2019 e 2020, coinciso con la rottura con il suo produttore/ideatore/regista/compagno/manipolatore Titanic Sinclair, dove invece si è presentata così:

Terminator Poppy

Meglio no? A mio avviso è moooolto meglio.
Eppure questa trasformazione da innocente fanciulla dai colori pastello ad androide borchiata non è avvenuta in maniera repentina, di certo non in punto in bianco come la stessa Poppy vorrebbe far pensare. Basterebbe ascoltare gli ultimi tre pezzi di Am I A Girl?, l’album precedente ad I Disagree e all’allontanamento di Sinclair, per rendersene conto: anche lì sono presenti chitarre metal pesanti e dissonanti che accompagnano la tenue voce della bionda cantante, per non parlare del contrasto fra parti pesanti ed aggressive e quelle più aperte e ariose, una vera e propria tecnica di songwriting che farà la fortuna di I Disagree e che proprio qui viene introdotta per la prima volta. Il testo di Time Is Up, poi, è un inno alla futura distruzione della specie umana su base electro dance, dove la creatura Poppy si sostituisce al suo creatore per dare avvio alla sua opera di morte. In sostanza, quello fra il 2018 e il 2019 è una specie di interregno di un progetto che cercava una via di fuga dalla Poppy meme di internet per diventare qualcos’altro, probabilmente qualcosa dal maggiore impatto e che attirasse un pubblico quanto più possibilmente eterogeneo. Insomma, non si può certo dire che Poppy e Titanic Sinclair prima e poi la sola Poppy non abbiano saputo fiutare le possibilità che un simile progetto può presentare se opportunamente sfruttato.

Un aspetto da sottolineare, a mio parere, è che l’arte di Poppy trasmette nettamente la sensazione di continuo travalicamento di quella sottile linea che divide il personaggio mediatico dalla persona dietro alla maschera pubblica. Questa linea viene continuamente attraversata e spostata dalla stessa artista, che la sublima nella sua musica e nel suo immaginario. Si potrebbe quasi dire che la terribile esperienza di abuso che Poppy ha subìto per buona parte della sua carriera per mano del suo ex compagno Titanic Sinclair si sia travasata nella sua musica, innervando e costituendo l’intera visione estetica di Poppy. Il suo mondo, infatti, mette in scena spesso e volentieri dinamiche di potere fra dominatore e dominato, fra chi ne è detentore e chi lo subisce, fra un’autorità onnipotente e un burattino nelle mani altrui. Ma poi, guardando attentamente, si può trovare anche la reazione a tutto questo negativo: come in uno specchio che ribalta la prospettiva, alcuni pezzi della musicista parlano infatti di una ritrovata ed agognata identità, del recupero di nuovi spazi di libertà, di come l’arte possa spezzare vecchie catene. Il fatto che Poppy continui a cantare di questi temi anche dopo la fine della tossica relazione con Sinclair è indicativo del fatto che la musica possa davvero guarire ferite e dare un nuovo senso a vecchie esperienze, anche le più traumatiche.
Dov’è la maschera, quindi? Dove collocare quel confine fra artista e persona? Ed esiste veramente questo confine per Poppy? Ammesso che non esista, dove può condurre? A volte, un artista è costretto ad indossare una maschera per sopravvivenza; cosa succede se questa maschera lascia scoperto una parte del volto, facendo intravedere ciò che si voleva proteggere?

Anche per questi motivi, a mio avviso, la Poppy attuale, quella da I Disagree in poi, è qualcosa di unico all’interno del panorama pop più “alternativo” (qualunque cosa questo termine possa significare per voi), una figura interessante e stimolante dal punto di vista estetico vista la sua attitudine nel sapere coniugare gli estremi, conciliando immagini all’apparenza inconciliabili e capace di creare attraverso contrasti. L’ottima macchina di promozione alle spalle e il team di musicisti di supporto fanno il resto.

Gli ultimi due singoli recentemente pubblicati fanno intendere che Flux, il prossimo album di Poppy previsto per settembre, continuerà sulla scia di I Disagree, forse con meno “metal” nel sound generale e più rock anni ’90 come ingrediente principale, opportunamente modificato geneticamente. La title-track e Her suonano infatti come un mix fra Garbage, Hole, L7 e qualunque altro tipo di riot grrrl band che possa venire in mente. Come dite? I pezzi vi ricordano un po’ anche le Jack Off Jill? Esatto, e guarda caso la nostra carissima sosia di Piper Perry ha fatto una cover della loro Fear Of Dying. Come dite? Le Jack Off Jill sono state prodotte all’inizio della loro carriera nientepopo di meno che da Marilyn Manson? Ma guarda un po’, uno dei nomi che spuntano sempre fuori quando si parla di Poppy! Il cerchio si chiude, e ora possiamo tutti andare a nanna.



….

….

….

….

….

….

Oh, allora, non vi siete stancati? Come? Cosa dite? La musica e l’immaginario degli ultimi trent’anni sono ritornati ormai di moda nel music business? Eccerto, perché altrimenti scomodarsi nel fare una cover di un pezzo come All the things she said, che pure le t.A.T.u. si sono ormai dimenticate di aver mai cantato?

Dai, ora a nanna, su.
Tutto andrà per il meglio.

Ma che v’ha fatto The X Factor?

Il disco degli Iron Maiden del 1995, intendo, non il programma che ultimamente ha portato alla ribalta un gruppo di ragazzi ignari (???) di essere usati come ennesimo vuoto contenitore di un’industria musicale che anno dopo anno capitalizza e va avanti grazie all’immaginario del passato.

Si, quindi, The X Factor degli inglesi Iron Maiden, dicevamo. La merda spalata su questo album è stata talmente tanta nel corso degli anni che quella cagata dal triceratopo di Jurassic Park in confronto è bignè al cioccolato. Ma questo è il problema di essere fan, c’è sempre il rischio di rimanere obnubilati di fronte a tutto ciò che fanno i propri beniamini, e ogni cambiamento è visto con grande sospetto, se non proprio con ostilità. Non so esattamente da dove derivi la parola inglese fan, ma a me ha sempre fatto venire in mente il termine fan-atico. Ecco, chi ha sputato e continua a sputare su The X Factor mi sembra che si comporti da fanatico dei primi Maiden, quelli dei capolavori degli anni ’80, quelli che a partire dagli anni ’90 hanno iniziato a fare schifo. Non è vero, e i motivi sono essenzialmente due:
1) c’è No Prayer For The Dying che è lì a testimoniare il contrario;
2) The X Factor è qualcosa che i Maiden non avevano mai provato prima, una scommessa non tanto verso i loro fan, ma soprattutto verso se stessi. E che, alla fine, bisogna ammettere che hanno vinto.

Capiamoci, non stiamo parlando di un album rivoluzionario, né per la storia del rock/heavy metal, né per la stessa carriera del gruppo inglese. Premetto una cosa, però, qualcosa che potrebbe far cambiare immediatamente pagina a chi sta leggendo: a mio avviso, gli Iron Maiden non hanno mai realmente rivoluzionato il loro stile. Ovviamente hanno fatto la storia di un genere musicale perché sono stati fra i primi gruppi a canonizzare quel genere e a dargli un’identità ben precisa. Ma la loro carriera non ha mai realmente subito cambi di rotta – repentini o progressivi che siano – tali da costituire un prima o un dopo. Quello che i Maiden hanno fatto, invece, è stato giocare di volta in volta con questo o quell’aspetto del linguaggio heavy metal; sottolineare e finanche estremizzare determinate loro caratteristiche stilistiche; adottare diverse vesti in sede di produzione. Non hanno mai abbandonato la loro strada principale; con loro non si può neanche parlare di vere e proprie deviazioni, ma al massimo di variazioni nel ritmo di marcia. Non stiamo parlando, chessò, dei King Crimson che negli anni ’80 si sono messi a suonare new wave, o dei Sepultura che, manco a farlo apposta, a metà anni ’90 hanno incominciato a mettere bonghi e marimbe in mezzo alla doppia cassa e ai chitarroni. Poco importa se per i Maiden del nuovo millennio c’è un ritornello più aperto e “arioso”, una canzone più lunga, una produzione più cristallina o piena di bassi e i mid tempos: tutte queste caratteristiche sono sempre state in nuce sin dal primo album della band e, di volta in volta, sviluppate e rimaneggiate alla bisogna. Reputo che il successo che gli Iron Maiden riscuotono ancora oggi presso un pubblico più giovane – cosa letteralmente incredibile per un gruppo di sessantenni, in un periodo in cui millennials e gen z non si inculano manco per striscio la musica con le chitarre – sia dovuto proprio al fatto che Steve Harris & co. abbiano sempre giocato sul sicuro, da attenti professionisti quali sono.

Tutto sto pippotto per dire che:

DOVETE LASCIARE STARE THE X FACTOR PERCHÈ È UN DISCO BUONO BUONO COME IL PANE E NUTELLA, E SE NON VI PIACE LA NUTELLA (ESISTE QUALCUNO A CUI NON PIACE???) ALLORA SIETE TRISTI E SI SPIEGA PERCHÈ NON VI PIACE THE X FACTOR!

Ero tentato di chiudere il pezzo così, però poi mi sono detto che no, dai, bisogna ribadire il concetto che se non vi piace questo disco siete proprio delle persone orrende. Cos’è che non vi acchiappa, la produzione? La produzione è la vera novità qui in casa Maiden, e per questo è comprensibile, da una parte, come mai i fan dell’epoca siano rimasti di merda. Però dai ragazzi, son passati ventisei anni e c’è una pandemia mortale in corso, ora è tempo di crescere e di guardare le cose sotto un’altra prospettiva. La produzione di questo lavoro si discosta da quella dei dischi del passato: meno epica e pomposa ma più “liscia” e oscura, ha una sua coloritura molto peculiare, dai toni depressivi, perfetta per accompagnare i testi incentrati sulle conseguenze psicologiche della guerra e su un mondo schizofrenico, violento e sull’orlo del baratro. Gli strumenti sono immersi in una penombra perenne, emettendo i loro timbri come se parlassero in sottovoce. D’altronde, all’epoca la band stava attraversando un periodo molto difficile, e di conseguenza questo si riflette sull’intero lavoro. Per tutti questi motivi, e considerando anche il periodo in cui è stato pubblicato, ai miei occhi The X Factor è un po’ l’album “grunge” degli Iron Maiden.

E cos’altro non vi acchiappa? Blaze Bayley? Qui si ritorna al discorso in apertura: non fare i fan fanatici. Bayley e Dickinson non c’entrano nulla l’uno con l’altro, questo è ovvio. Perché i Maiden abbiano optato per il cantante dei Wolfsbane? Non ne ho idea, ma c’è da dire che la scelta è stata azzeccata. Perché? Qui vi rimando invece al quesito precedente sulla produzione. Ve lo immaginate Dickinson, con i suoi acuti e i suoi SCREEEEEAAAM FOR MEEEEEEE, cantare gli ombrosi testi di The X Factor? Io no. La voce di Bayley, invece, è ottima per il taglio che la band ha voluto dare al lavoro; lui non è un cantante tecnico, non è nemmeno dotato dello stesso carisma di Bruce Dickinson, ma qui (come anche in Virtual XI, si proprio lui, l’altro disco che vi fa schifo) fa un ottimo lavoro e centra l’obiettivo. Mi sbilancerei troppo nel dire che Bayley suona più come un bluesman, o al massimo come un cantante rock, anziché uno heavy metal? Boh, ma mi va di sbilanciarmi ugualmente. Vedetela come vi pare, rimane il fatto che senza Bayley questo disco perderebbe tantissimo del suo fascino.

Per il resto sono i soliti, vecchi, cari Iron Maiden. E qui ritorniamo all’altro discorso precedente, ovvero sul fatto che il gruppo non ha mai realmente cambiato pelle. Il songwriting è rimasto pressoché identico, con cavalcate, aperture, assoli velocissimi e melodici e tutto il classico ambaradan. L’apertura e la chiusura del disco, rispettivamente affidate a Sign Of The Cross e The Unbeliever, mi fanno impazzire: la prima perché è una vera e propria dichiarazione d’intenti, un chiaro avviso affisso dal gruppo per tutti gli ascoltatori che da qui in poi le cose suoneranno in maniera leggermente differente rispetto al solito, con il basso che sembra scandire i rintocchi come una campana; la seconda con quelle gustosissime aperture delle chitarre acustiche nel pre-chorus, che conducono ad un ritornello coinvolgentissimo. Non riuscite ad ascoltare il disco dall’inizio alla fine perché vi rompete le palle? Provate ad ascoltarlo a pezzi, ad esempio uno o due pezzi alla volta. Fate delle lunghe pause fra una canzone e l’altra, magari ascoltatene un paio un giorno e un paio il giorno dopo, fate voi. In questo modo, secondo me, viene meno l’effetto destabilizzante del disco nel suo insieme mentre, ascoltando solo singole canzoni, si riuscirebbe ad entrare gradualmente nel mood dell’album, lasciandosi coinvolgere dai singoli pezzi.


Se lo stile è rimasto immutato, l’unico elemento che è cambiato è la durata generale del disco, che supera l’ora, indicatore del fatto che i Maiden si sono dilettati con pezzi un po’ più lunghi del solito. Per questo motivo, The X Factor può essere visto come il precursore degli attuali dischi dei Maiden, quelli da Brave New World in poi, tutti dischi che durano più di un’ora e che vedono al loro interno pezzi che superano la durata media di un singolo radiofonico. Attenzione: negli anni ’80 ci sono stati alcuni pezzi lunghi e dal taglio “progressive” (altro discorso da affrontare, quello dei Maiden prog, magari quando uscirà Senjutsu a settembre, sempre se sto blog ci arriverà a settembre), basti ricordare Hallowed Be Thy Name, Rime of the Ancient Mariner, Alexander The Great, Seventh Son of a Seventh Son; d’altra parte, l’amore di Steve Harris per il prog anni ’70 non è mai stato un mistero. La differenza sta semplicemente nel fatto che in The X Factor questa inclinazione diventa parte integrante del processo creativo della band. Gli Iron Maiden non sono quindi diventati di punto in bianco come i Genesis: avevano già in nuce, come specificato prima, i germi di questa tendenza. Ancora una volta i Maiden non cambiano, anzi, rimangono sempre gli stessi.

Furboni i Maiden, dei gran furboni. Come disse un mio amico una volta: “loro hanno trovato la formula del successo”. Come la Coca Cola, le Nike, Google, Amazon. Comprare un loro album o andare ad un loro concerto è come pagare un biglietto per entrare a Disneyland: un luogo dove divertirsi ed essere catapultati in un’altra dimensione.
Chissà, forse The X Factor è ancora così tanto bistrattato perché i Maiden avevano fatto vedere che anche la loro Disneyland può essere fragile e ad un passo dal precipizio.