Dimenticate Howard Shore. Dimenticate la London Philarmonic Orchestra. Dimenticate Enya. Lo svedese Bo Hansson compone e registra la sua personale colonna sonora di un ipotetico film del Signore degli Anelli con chitarre, Moog, sintetizzatori, basso, batteria, percussioni, sax e flauto. Tutto questo fra il ’69 e il ’70, decenni prima di Peter Jackson, delle maratone da nerd tolkeniani e di quel gran pezzo di elfo di Liv Tyler.
Hansson sceglie un approccio che è diametralmente opposto a ciò che ci aspetteremmo da una musica concepita per l’epica fantasy del Signore degli Anelli. La mia generazione è cresciuta con quelle scene, con quegli attori, con Gandalf che urla TU NON PUOI PASSARE!; inevitabile che qualsiasi rimando al capolavoro di Tolkien successivo alla metà dei 2000 si scontri con la trilogia di Peter Jackson. Per questo, a mio avviso, chi fra le nuove generazioni decidesse di avvicinarsi al disco di Bo Hansson, si troverebbe completamente spiazzato.
Quella del musicista svedese è musica talmente dissonante per la nostra idea di ciò che riguarda il Signore degli Anelli che, una volta premuto play, ci ritroveremo sprofondati nel divano con uno spinello di erba pipa fra le mani invece che brandire una spada macellando orchi presso il fosso di Helm. La musica del compositore svedese è priva di qualsiasi epicità o di carattere puramente orchestrale, anzi: il suo tocco è minimale negli arrangiamenti e spettrale nelle atmosfere, grazie soprattutto all’uso dell’organo che sembra celebrare una lunga messa in una terra dimenticata dagli uomini. Una scelta stilistica che non fa altro che aumentare quel senso di mistero profondo dell’opera tolkeniana, facendo in modo che una fitta nebbia si innalzi sopra la Terra di Mezzo avvolgendo personaggi, eventi e luoghi. In certi passaggi la musica sembra addirittura tendere verso il silenzio, aumentando la tensione ed instillando un piacevole e leggero senso di spaesamento. Le note cadono spesso e volentieri nel vuoto, i ritmi si muovono sinuosi come per non essere notati. Qui non c’è nessun direttore d’orchestra che, in preda a furori beethoviani o wagneriani, incalza la sua orchestra con impeto romantico, no: qui al massimo si possono scorgere i Pink Floyd suonare per il sole nascente fra le rovine di Pompei.
Library music? Forse, ma il buon Hansson non si limita a tracciare degli schizzi musicali con cui semplicemente accompagnare delle ipotetiche sequenze cinematografiche. Qui c’è di più, e la portata musicale del progetto riesce ad essere personale attingendo da quel crocevia di prog, jazz e psichedelia che fra la fine degli anni ’60 e i primi ’70 costituiva quanto di più interessante la musica popolare stesse partorendo (anche se di prog classicamente inteso qui non c’è neanche l’ombra, al massimo si potrebbe ipotizzare che il disco abbia più tendenze ambient che altro, creando inaspettatamente un ponte per quello che nei decenni successivi sarà il filone della dungeon synth oggi in voga). Chi cazzo potrebbe immaginare di mettere delle conga in un disco ispirato al Signore degli Anelli??? Ne devi fumare di erba pipa per concepire una cosa del genere! Sarà che forse Bo Hansson ne avrà abusata parecchia quando è andato a registrare il disco nella remota isola di Älgö, nell’arcipelago di Stoccolma, di fronte al mare a -30° e nessun uomo o mezz’uomo nei pareggi per svariati chilometri.
I cinquant’anni del disco si sentono tutti, in ogni passaggio, in ogni nota di quella chitarra acida e tremendamente psichedelica (voci lontane provenienti da Mordor dicono che sarebbe stata suonata niente meno che da Jimi Hendrix…), fra i lampi dei synth e i sussulti delle percussioni. Ed il suo fascino risiede anche in questo: proprio come la storia del Signore degli Anelli è completamente lontana dalla nostra esperienza quotidiana, così l’opera di Bo Hannson sembra provenire da un tempo e da uno spazio mitici, propri del sogno. La polvere si è appoggiata su questo disco e soffiarla via dai suoi solchi è come attraversare lo specchio per accedere ad un’altra dimensione. L’ascoltatore si siede di fronte al fuoco acceso in piena notte, pronto per essere spaventato ed eccitato da una nuova storia. Ancora meglio se rullando e facendo girare dell’erba pipa fresca.
Dimmi che piangerai, dimmi che riderai. Un frase che Walter Celi ripete più e più volte verso la fine del suo nuovo singolo, “Vero”, e che suona come un invito, una delicata speranza, un canto intimo ma allo stesso tempo desideroso di incontrare il mondo. È rivolto alla ipotetica persona che in quel momento è lì con lui a condividere un momento intimo e meraviglioso, ma anche verso l’ascoltatore immerso nei suoni avvolgenti e delicati, puramente Neo soul, di piano, tromba, basso e batteria del Blend Project; un verso che è quasi cantato sotto voce e che potrebbe passare in secondo piano, se non fosse che rivela molto del carattere del brano e dell’attitudine del giovane musicista pugliese verso le sue creazioni. La musica di Walter Celi è sempre stata così, da tre album a questa parte e dopo innumerevoli concerti (Arezzo Wave 2018 e Primo Maggio 2019 fra gli altri): istintuale, aperta, puramente emotiva. Pronta a farsi trasportare chissà dove da imperscrutabili cenni dell’anima e dagli intimi fremiti del corpo. “Vero” ribadisce questa specie di poetica musicale fra visibile ed invisibile, fra corporeità e sentimento, e lo fa ribadendo una piccola ma necessaria verità: sentirsi vivi qui ed ora, al di là di ogni facile razionalizzazione e categoria imposta. Un brano che, proprio per la sua freschezza e semplicità, suona come un nuovo inizio, nonché stimolo per future composizioni, come rivela lo stesso Walter. In un’epoca dove ognuno è chiuso all’interno della propria bolla di verità e di camere dell’eco, il messaggio di Walter Celi diventa ancora più necessario: riappropriarsi dell’esperienza del mondo, che sia esso pianto o riso. Per questo la dimensione live della musica di Walter Celi è un altro elemento fondamentale – se non il più importante – perché è lì che si materializza questa attitudine. Il nuovo singolo dà il via al “VERO Tour 2022”, una produzione Xo La Factory, al momento in corso ma con nuove date in via di aggiornamento. Un modo per riappropriarsi di spazi, sensazioni, emozioni, corpi, verità.
Il tour è organizzato in collaborazione e con il supporto di Puglia Sounds e rientra nella “Programmazione Puglia Sounds Tour Italia 2022” OPERAZIONE FINANZIATA A VALERE SUL POC PUGLIA 2007-2013- AZIONE “SVILUPPO DI ATTIVITÁ CULTURALI E DELLO SPETTACOLO”.
Com’è nato il nuovo singolo “Vero”? Me lo ricordo benissimo. Ero a casa e giocavo con l’Octapad, la percussione elettronica che mi porto anche in tour per suonare e che ha una funzione loop che è molto interessante. A un certo punto ho creato un ritmo alquanto strano, che mi intrigava, e sono passato subito alla tastiera per provare a buttarci su due accordi. Appena ho messo le mani sul piano, i due accordi sono usciti subito: erano quelli giusti! Qualche giorno dopo, dopo averlo suonato un po’, ho scritto il testo. A quel punto era nato “Vero”.
“Vero”, a mio avviso, funziona proprio grazie all’unione di semplicità, raffinatezza jazz ed energia R’n’B data dal tocco vintage della produzione. Ogni strumento contribuisce a rendere diretto e “reale” il brano. Quanto ha influito l’alchimia in studio con il Blend Project? Quanto Walter Celi si è lasciato influenzare e quanto Walter Celi ha influenzato determinate scelte artistiche per il brano? L’affiatamento tra i vari componenti della band è stato questa volta ancor più fondamentale che in passato; ad esempio, per la prima volta i ragazzi che mi seguono in tour hanno messo mani anche sulla registrazione. Volevo che tutto fosse autentico, per questo abbiamo registrato il singolo in presa diretta suonando tutti contemporaneamente. In questo modo, il brano suona ancora più genuino ed eterogeneo, con lo stile di ognuno di noi al suo interno, proprio come si fa nei dischi jazz.
Come si rapporta questo nuovo pezzo con il resto della tua discografia? Potrebbe essere visto come un eventuale sviluppo per future composizioni? Si è trattato indubbiamente di un momento di svolta, soprattutto per quanto riguarda il testo ma anche a livello musicale. “Vero” segue nel sound la corrente del Neo Soul moderno, restando comunque ancorato al passato sulla scia del mio ultimo album She’s Back. Basterebbe ad esempio ascoltare attentamente la ritmica: le batterie Neo Soul sono solitamente campionate mentre in “Vero” sono suonate proprio come si faceva anni fa. Ad ogni modo, penso proprio che questo brano potrebbe influenzare le prossime composizioni.
Le tue canzoni sono cantate sia in inglese che in italiano, con una predominanza del primo. Cosa determina la scelta per l’uno o per l’altro? Perché per “Vero” hai optato per l’italiano? Quando scrivo il testo di un brano di solito agisco d’istinto. Questa volta ho deciso di liberarmi da tutte le influenze esterne e di non farmi condizionare dagli ascolti che di solito faccio in lingua inglese, in modo da riappropriarmi del mio linguaggio e poter adattare così un testo italiano a un pezzo dal sound decisamente straniero. Penso che il risultato sia qualcosa di internazionale ma che allo stesso tempo arriva prima al cuore di un ascoltatore italiano.
Vivere il momento presente con spontaneità, immergendosi nel qui e ora per recuperare una sorta di verità essenziale che è al di là di qualsiasi facile razionalizzazione: “Vero”, sin dal titolo, sembra voler riaffermare tutto ciò. È forse anche il modo in cui ti rapporti alla musica in generale e al tuo processo creativo in particolare? È anche il modo in cui cerco di rapportarmi alla vita. Da sempre cerco di essere autentico e sincero quando scrivo una canzone. Non cerco mai di fare qualcosa che non sia nelle mie corde, se così non fosse prenderei in giro prima di tutto me stesso e poi gli altri. Non seguo le mode ma solo il mio istinto. Questa volta l’ho fatto ancor più che in passato, veicolando questo concetto anche nel testo e utilizzando la cornice della storia d’amore. È necessario liberarsi di tutto ciò che ci devia e influenza la nostra ragione, facendo ciò che ci fa veramente stare bene. Non siamo fatti solo di pensieri ma anche di carne ed ossa, e “Vero” è un invito ad ascoltare il proprio corpo. È un inno alla libertà.
Quali sono gli artisti, i generi e gli stili, anche al di fuori dell’ambito musicale, che più hanno influenzato il tuo percorso artistico? Ce ne sono talmente tanti che non riuscirei ad elencarli tutti. Posso solo dire che ciò che scrivo è il risultato di ascolti molto diversi fra loro condotti nel corso degli anni. Ho ascoltato e amato qualsiasi tipo di musica, dalla classica al rock, dalla black music al progressive. Oggi a 33 anni forse posso dire che la musica Soul, la musica dell’anima, è il genere che preferisco e quello che mi fa emozionare di più.
In concomitanza con l’uscita del nuovo singolo partirà anche il “VERO tour 2022” con otto date al momento confermate. Cosa rappresenta per te la dimensione live? Quanto è importante per te il rapporto diretto con il pubblico, soprattutto dopo il lungo periodo della pandemia che ha portato molti artisti ad esibirsi virtualmente? Per me il live è tutto, è vita, è ossigeno. Ho cominciato a fare questo mestiere perché mi è sempre piaciuto stare sul palco ed esibirmi. Ho suonato proprio qualche settimana fa a Bari, città in cui vivo, e prima di quel momento non sono potuto salire su un palco per due mesi; non me la sono passata per niente bene. I miei compagni d’avventura, Donny, Dario, Beppe e Giuseppe la pensano esattamente come me. Non sono uno di quegli artisti che vivono per gli ascolti su Spotify o le visualizzazioni sui social: io voglio il pubblico di fronte a me, che mi ascolti e che partecipi attivamente al live. Voglio che ci sia uno scambio di energia continuo tra me e le persone che ascoltano la mia musica. Voglio sentire le mani che applaudono, i fischi, le grida. Il palcoscenico è la mia casa.
Quali saranno i progetti futuri una volta completato il tour? Penso che faremo uscire un nuovo brano durante l’estate, qualcosa di fresco e ballabile che è in cantiere da tempo. Mi piacerebbe realizzare anche un paio di featuring con alcuni artisti che stimo molto. Al momento ci stiamo lavorando.
Il tempo per ascoltare tutto ciò che si vorrebbe è sempre meno, accerchiato, ridotto e spremuto come un limone marcio fra le duemila inutili cose che la cosiddetta realtà pretende da noi. Non c’è tempo per nulla, per ascoltare, capire, analizzare, comprendere, usare il cervello ed eventualmente decidere pure di lanciarlo dal terzo piano. Non c’è tempo per decidere. Non c’è tempo per decidere perché sembra tutto già deciso. Da chi? Da cosa? Ognuno potrà spuntare la casella che più ritiene opportuna dal proprio taccuino dei rimpianti e dei buoni propositi rinviati a miglior tempo. Potessimo almeno guardarci allo specchio e scorgere qualcosa…
Il nuovo disco dei GGGOLDDD si guarda allo specchio e dichiara con un sussurro una verità semplice, chiara e limpida, e proprio per questo sconcertante e dolorosa: questa vergogna non dovrebbe essere mia. Chi me l’ha appiccicata addosso? Perché questo olezzo disgustoso che proviene dalla mia pelle? È quella condanna che va sotto il nome di senso di colpa, un marchio vecchio come il mondo e l’universo, anzi no, mondo e universo sono privi di colpa e quindi di senso di colpa, sono meravigliosi e splendenti come il sole che si irradia in una luce bianca e la luna che smuove le maree e che continueranno a farlo per chissà per quanti miliardi di anni, fino a quando quell’enorme lampadina lassù non scaricherà definitivamente le sue batterie. Ed allora anche il senso di colpa – vecchio come l’essere umano, questo si – scomparirà inghiottito dall’ombra eterna della notte, finalmente coperto da un lenzuolo come un freddo cadavere. Colpa, senso di colpa, condanna, controllo ed espiazione: stupidi concetti creati ad arte da uomini ciechi e vuoti per far sentire indifesi chi invece vorrebbe soltanto essere una piccola cosa libera e dal cuore semplice, e che verranno risucchiati in un attimo dal sole nero della notte, neanche dimenticati perché non potrà neppure esserci il ricordo. Violenza e sopraffazione, in tutte le sue forme, saranno azzerate, tutto sarà ridimensionato, ripensato, ricollocato ad una scala infinitamente più piccola; donne che hanno conosciuto questa vergogna indicibile per mano di uomini che si sono creduti Dio – ma piccoli come bambini – potranno finalmente trovare un po’ di pace, farsi aria, nuovo ossigeno, nuova terra, nuova erba, nuovi alberi, nuove nuvole, nuovi pianeti e nuovi soli. Nuova vita. Altrove, ovunque.
I didn’t see it coming
I shed some light on the ferocious complexity
I want the smell to leave me
I wanna shower till my skin comes off
Il resto è appunto vita musicale che scorre in rivoli chiaroscuri. Possono farsi turbolenti e torbidi, come l’ultimo degli Immolation, una dichiarazione di guerra e di rivolta contro Dio e i suoi profeti in buona e cattiva fede, anche lui invocando il sole nero dell’ultima notte, o, ancora, l’album omonimo di Corpsegrinder, che detta il ritmo possente dei tamburi della guerra prossima ventura e di quelle già in corso; fluidi e multicolore, come le canzoni dei Guerilla Toss, che più che canzoni sono deliri e visioni tossiche, ma di quella tossicità buona, dolce, che appanna i soliti cinque sensi per farne emergere altri dieci di cui non si conosce l’esistenza, fra cui quello che consente di vedere proiettate nella mente di chi ascolta le onde sonore della nostra voce e di surfare su arcobaleni multicolore per sentirsi (finalmente) vivi; freddi e glaciali come i tappeti sonori dei Cannibal Ox di The Cold Vein, nonché messianici come quel monolite impenetrabile di Irrlicht di quell’essere metà uomo e metà macchina proveniente dalla galassia Moog Klaus Schulze, entrambi robot deliranti, errori nelle equazioni che non dovrebbero esistere, e che tuttavia rivelano un’umanità più profonda dell’umano stesso, il bagliore dietro agli occhi di metallo dell’automa di Metropolis, un nuovo Big Bang esploso dalle frequenze degli eterni sintetizzatori al centro dell’universo; algidi e sinuosi, un gelato alla panna jazz con praline soul e r’n’b dal nome Tinted Shades da quel genietto di Joe Armon-Jones insieme alla voce delicata come il vetro di Fatima, e accecanti come una luce che lentamente si dischiude proprio al centro della stanza, un’apparizione che lascia intravedere l’altra parte dello specchio – Pang di Caroline Polachek, anche lei metà essere umano e metà macchina, ma perfezionata e portata a punto per l’umanità prossima futura, un essere polimorfo dalle profondità oceaniche che ricorda tutto, anche ciò che non ha mai veramente vissuto come gli anni ’80 di Songs from the Big Chair dei Tears for Fears, un oggetto musicale, questo, che riesce a scrollarsi di dosso la polvere accumulatasi in più di trent’anni di storia ad ogni ascolto, perfetto, rotondo, brillante, con un piede nel suo tempo e un piede altrove (e che, come i ricordi più belli o i traumi, riappare lì dove meno te lo aspetti, vedere alla voce Eat the Elephant degli A Perfect Circle).
Finché poi tutto – l’ascoltato e l’inascoltato, l’ascoltabile e l’inascoltabile – non verrà ancora una volta inghiottito dalla notte eterna del sole nero. Rimarrà solo Sirio a risplendere dalla Terra, mentre gli ultimi uomini guarderanno il cielo chiedendosi quale sia il luogo dove le stelle nere sono ancora appese.
Nel 1972 un giovane ventenne poteva svegliarsi la mattina, aprire la sua bella copia di Melody Maker o NME, scorrere il ditino sulle varie classifiche di vendita e trovarci, fra le altre cose, roba come Thick as a Brick dei Jethro Tull, Close to the Edge degli Yes e Caravanserai dei Santana. Niente male, eh? Ma tranquilli, non mi metterò a fare paragoni con la scena musicale attuale, sarebbe un giochino inutile e scontato – troppo diversi gli scenari, lontani anni luce gli uni dagli altri per orientamenti stilistici e gusti generali. Di certo, però, si può affermare che il 1972 è stato uno degli anni in cui un nuovo sotto genere del rock, il progressive rock, ha raggiunto uno dei suoi maggiori picchi creativi più rappresentativi, riuscendo non solo a sgomitare facendosi largo nel nuovo panorama rock dell’epoca, ma anche ad imporsi come LA novità presso i giovani capelloni affamati di suoni inediti, pezzi dalla durata improponibile per le radio, canzoni che più che essere tali erano dei veri e propri viaggi sonici e contorsioni strumentali olimpioniche. Non c’era più il sogno flower power degli hippies del decennio precedente, ma nonostante ciò la creatività era rimasta al potere; era come se negli anni ’70, musicalmente parlando, si fosse cercata comunque una via altra ma senza mai perdere il contatto con la realtà, anche quando questa risultava cinica e violenta. Anche quando si trasformò in un decennio di piombo. A mio modesto avviso, anni ’60 e ’70 sono le due facce della stessa medaglia, complementari ma non opposte. Per molti, il risveglio dal sogno psichedelico nel quale erano stati cullati dalla summer of love fu per lo più traumatico: era il tempo di ritornare con i piedi per terra, senza più ingenuità e facili vie di fuga. Quel sogno collettivo era stato luminoso e puro, una danza condotta sotto qualsiasi cielo, per tutti. Ma come tutte le cose più intense, fu destinato a durare poco. Il decennio dei ’70 quindi è stato la campana a morto del funerale degli anni ’60, la stessa campana dell’omonimo primo disco dei Black Sabbath, un gruppo il cui malefico fiore poteva nascere solo e soltanto in quel nuovo decennio.
Personalmente la vedo così: i ’60 sono stati un good trip, i’70, invece, un bad trip. La realtà si stava affacciando sulle soglie delle coscienze, e bussava, bussava forte, e non aveva certo intenzione di andarsene, anche a costo di buttare giù la casa come il lupo con i tre porcellini. Quei ragazzi non più adolescenti o ventenni iniziarono a capire che il mondo e le persone sono cose molto più complesse, contraddittorie e pericolose di quanto vorrebbe farci credere un qualsiasi guru improvvisato: delle lunghe suite prog rock, articolate e labirintiche, pervase da momenti di stasi ed altri frenetici, dove poter cantare i propri inni a squarciagola alzando le braccia al cielo e un attimo dopo immergersi nella cacofonia più totale e nell’alienazione di strumenti che parlano una nuova lingua. Non era il tempo della contemplazione, ma dell’azione. Era il tempo, insomma, di abbracciare il lato oscuro della luna.
Non che il progressive rock dei ’70 abbia cancellato con un colpo di spugna la musica di matrice psichedelica del decennio precedente. Anzi, per alcuni versi ne costituisce la prosecuzione attraverso una personale rielaborazione, mentre per altri arriva a negarla. Il tratto comune, però, sarà sempre e solo la sperimentazione: col jazz, con la classica, con suoni acustici ed elettronici e con tradizioni musicali locali. Sono alquanto convinto che il progressive si sia potuto definire tale – che abbia cioè potuto maturare una certa coscienza di sé – nel momento in cui il rock , ovvero, in maniera semplificata, quell’intero universo che era stato partorito dalla sfera musicale inglese dal dopoguerra in poi imponendosi come nuova musica popolare per le nuove generazioni, si è aperto a linguaggi musicali completamente estranei. Nei ’60 ci sono stati ovviamente esperimenti in questo senso – basti pensare ai Beatles che flirtano con i suoni indiani, nonché la stessa cultura psichedelica che guardava ad Oriente. Lo scarto operato dai gruppi prog, però, è ancora più ampio e, per certi versi, più sfrontato: uno strabordare dagli stessi perimetri del rock inglobando tutto e di più. Una sorta di metagenere di quegli anni, anche se può suonare esagerato; ma cos’è il prog rock, alla fine, se non appunto esagerazione? Un frullato, forse, ma non indigesto né tanto meno insapore, ma con una sua ben precisa identità, grazie a quella qualità “narrativa” propria del genere data attraverso l’adozione del concept come format per gli album e, soprattutto, all’alternanza di differenti atmosfere anche all’interno di uno stesso brano.
Apertura ad altri linguaggi, assimilazione totale e capacità narrativa: tre caratteristiche che personalmente reputo fondamentali per orientarsi attraverso la genesi e lo sviluppo del prog. Una fetta di appassionati e di critici reputano dischi come l’omonimo dei Procol Harum (1967), quello dei Caravan (1968) e Days of Future Passed (1967) dei The Moody Blues dei precursori del prog rock, dischi che hanno dato un forte impulso alla nascita del genere e che incarnerebbero di fatto le sue principali caratteristiche. Se da una parte è indubbio che il progressive degli anni ’70 sia stato influenzato dal rock del decennio precedente (e non potrebbe essere altrimenti) ereditando soprattutto quella volontà a voler andare sempre oltre e a sperimentare, tirare in ballo quei dischi significa a mio avviso restringere di molto l’indagine sulla reale origine del genere. Quei dischi, infatti, sono perfettamente inseriti nel filone del rock in voga negli anni ’60, strutturati sulla classica alternanza strofa/ritornello e mancando qualsiasi volontà di voler per lo meno giocare con questi canoni. L’album dei The Moody Blues è quello che si avvicina di più in questa direzione tramite l’introduzione dell’orchestra, ma il suo utilizzo non è per niente integrato nella musica del gruppo, risultando alla fine come un’aggiunta (in molti punti si ha come l’impressione che l’orchestra faccia da semplice intermezzo fra un brano e l’altro) e senza che i due linguaggi, rock e classica, riescano realmente a fondersi per dar vita ad un terzo altro. Nonostante la sua apertura e l’evidente capacità narrativa, Days Of Future Passed non riesce ad arrivare ad una vera e propria sintesi. Insomma, se proprio bisogna tirare in ballo gli anni ’60, credo che The Piper At The Gates of Dawn dei Pink Floyd o il primo dei Soft Machine possano rendere maggiore giustizia, proprio per il loro essere dischi sovversivi pur mantenendo i contatti con le sonorità del loro tempo.
Ma ad ogni modo, il vero terreno dal quale spunterà l’albero del progressive non può che essere a mio modesto avviso quello del jazz – in particolare bebop e free jazz – proprio perché esso offre gli strumenti migliori per poter ampliare moltissimo le potenzialità espressive dei nuovi musicisti. Non a caso il testamento del cosiddetto jazz rock, Bitches Brew di Miles Davis, una delle opere più importanti del ‘900, arriverà proprio nel 1970, allo scoccare del decennio e quando il progressive rock si stava preparando ad invadere le collezioni di dischi. Soltanto un anno prima un altro disco fondamentale aveva aperto crepe irreparabili facendo scorgere ciò che si celava al di là del consueto musicale: In the Court of the Crimson King dei King Crimson, summa delle tre caratteristiche del prog di apertura verso nuovi linguaggi, assimilazione e potenza narrativa. Un mosaico raffinatissimo che non solo riesce ad incarnare un intero genere ma che, come ogni vero capolavoro, lo supera per trasfigurarlo in qualcos’altro. Bitches Brew e In the Court of the Crimson King sono due terremoti che spostano i continenti della musica popolare del secondo novecento: il primo indica la nuova strada al jazz, il secondo al rock. Entrambi però si riflettono l’uno nell’altro, riuscendo ad andare oltre le rispettive tradizioni musicali per ritrovarsi miracolosamente in un luogo ancora oggi sconosciuto e al di là di generi ed etichette: quello del dominio dell’arte.
A mio avviso, ascoltare un album prog si avvicina molto all’esperienza della lettura di un romanzo o alla visione di un film. Progressive, progressione: passaggio fluido, graduale e costante da uno stadio ad un altro, proprio come le micro sequenze di cui si compone un’opera cinematografica o le pagine di una storia. Il fascino di questo genere è proprio questo: mettere su un disco è come sedersi intorno ad un fuoco, indossare le cuffie come prepararsi ad ascoltare ad occhi spalancati pronti per essere inondati di meraviglia, stupore e terrore. Il prog preferisce raccontare le sue storie tramite suoni e ritmi, perché a volte le parole dei testi sono superflue ed inadeguate, ed è meglio quindi affidarsi a brani completamente strumentali o che prevedano lunghe parti strumentali. La stessa capacità tecnica dei musicisti sugli strumenti deve essere sopraffina ed eclettica proprio perché deve assecondare al meglio questa qualità narrativa del prog: non scrivi un brano come Knots dei Gentle Giant se sai fare solo il giro di DO maggiore suonando accordi aperti.
Ho spesso sentito appellare il progressive rock come un genere “fine a se stesso”, “pomposo”, “freddo”, “sterile”, dedito ad inutili circonvoluzioni mentali. Può darsi… ma sti cazzi! È come criticare il metal perché è chiassoso o il funky perché troppo movimentato: semplicemente senza senso. L’errore di prospettiva risiede nel percepire come sterile manierismo ed esagerato protagonismo quella che invece è stata voglia di forzare i codici della forma canzone della musica popolare fra gli anni ’50 e ’60, processo che è passato anche attraverso l’estremizzazione delle jam di stampo psych rock in una chiave più tecnica e ricercata. Bisognerebbe provare a calarsi un attimo nei panni di un musicista rock di fine anni ’60/primi ’70 per intravedere i limiti e le sovrastrutture che la sua musica si stava ormai portando dietro da almeno vent’anni: a noi, ascoltatori del XXI secolo, tutto ciò sembra scontato ma all’epoca non lo era per niente. Detto con un esempio: se i Dream Theater possono permettersi di costruire un’intera carriera su un’idea di musica muscolare e basata sull’ostentazione tecnica prendendo a modello gli Emerson, Lake & Palmer, questo non significa automaticamente che gli ELP suonino come i Dream Theater. I presupposti delle due band sono diversi.
Per non parlare poi dell’accusa di essere un genere “freddo”, incapace cioè di aprirsi ad un qualsiasi gusto della melodia o ad una sequenza melodica che possa facilmente essere memorizzata. Niente di più falso: i dischi prog degli anni ’70, e in particolar modo i classici pubblicati nel 1972, traboccano di melodie, molte delle quali facilmente orecchiabili e che possono essere fischiettate sotto la doccia. Anche qui: l’errore risiede a mio avviso nel concentrarsi troppo sulla struttura dei brani che, come già detto, cercano di andare oltre gli stilemi canonici dell’epoca, ignorando il resto. Anzi, proprio i gruppi più sinfonici come Yes, ELP e Genesis sono probabilmente quelli più facilmente orecchiabili; basti ad esempio pensare al comparto vocale, pesantemente debitore della sensibilità melodica degli anni ’60.
Un genere come il progressive molto probabilmente oggi non potrebbe nascere, e per tutta una serie di ragioni, inclusa anche quella della riduzione del tempo d’ascolto. Ovviamente gruppi prog continuano ad esistere e a suonare, ma il punto è che il genere in sé ha perso rilevanza generale rispetto a quanto invece succedeva cinquant’anni fa. Ciò che rimane oggi, oltre ad una caterva di dischi meravigliosi ai quali ha contribuito in maniera fondamentale anche l’Italia, è quella capacità del prog di fare da ponte verso una miriade di sottogeneri, filoni e movimenti musicali d’avanguardia, che per chi si affaccia per la prima volta su questo mondo costituisce una piccola mappa insostituibile ed inestimabile. Chi intraprende quel rischioso e meraviglioso percorso che lo condurrà per la selva oscura della musica meno commerciale o anti commerciale, non può prescindere dal prog. Il progressive come metagenere, per l’appunto. Prima o poi ci si imbatte in esso, e da quel momento in poi diventerà il proprio Virgilio.
Di solito le testate e i blog che trattano di musica pongono prima delle loro classifiche di fine anno degli articoli introduttivi che, nelle intenzioni, dovrebbero tirare le somme dell’anno musicale appena trascorso. Un modo per tracciare delle mappe orientative su come e dove la musica si sta muovendo, sulle tendenze, i nomi, i trend, i generi e le attitudini che hanno animato i dodici mesi precedenti. È un’operazione che ha il suo senso, se non altro per una mera questione di memoria storica musicale che a posteriori, poi, potrebbe fungere da archivio (ammesso che non si perda nell’oceano sconfinato della rete). Il problema, però, è che ad ogni occasione si rischia di scrivere sempre le solite cose, tipo: quest’anno è stato molto ricco, quest’anno non sono usciti dischi di rilievo, quest’anno sono rimasto deluso, quest’anno ci sono state poche novità e molte conferme, quest’anno ci sono state molte novità e poche conferme eccetera eccetera eccetera, con minime, se non inesistenti, variazioni sul tema. Insomma, un giochino molto fine a se stesso e che alla lunga diventa stancante (personalmente, quando mi accingo a leggere questo tipo di articoli, salto a piè pari la parte introduttiva e vado direttamente a dare un’occhiata ai dischi delle classifiche). D’altronde, le stesse classifiche di fine anno sono sempre state fine a se stesse; si prova a spacciarle come innocuo esercizio, dei divertissement, ma che, nel contesto di una testata (specie se molto seguita), è tutto fuorché tale, perché indirizza ed orienta già in principio cosa è meritevole di ascolto e cosa no, cosa è meglio e cosa è peggio, cosa sta in cima e cosa in fondo. Si tratta di dividere, separare, dare un valore. Insomma, si tratta di un’operazione molto forte, e chi stila queste classifiche dovrebbe maneggiare la materia molto delicatamente, perché ha una responsabilità enorme nei confronti dei lettori/ascoltatori. Ma questa consapevolezza è ormai completamente messa da parte: le classifiche di fine anno sono diventate un cliché, semplice routine nel piano editoriale di chi si occupa di queste cose, qualcosa che si deve fare perché attira lettori.
Ad ogni modo, la ragione che mi sono dato per cui molti di questi articoli introduttivi sono di una noia mortale (quando va bene) o inutili e ridondanti (quando va male) è molto semplice, ed anche molto banale: viviamo in un’epoca satura di musica di ogni tipo, in cui ogni settimana viene prodotta e messa sul mercato un quantitativo tale che di certo non basterebbero dieci vite per ascoltarla ed assimilarla tutta. Una situazione inedita nella storia culturale dell’uomo, il cui impulso si deve sicuramente anche grazie all’avvento delle nuove tecnologie digitali e musicali messe a disposizione di artisti e pubblico. In questo contesto, anche solo per la legge dei grandi numeri, è assolutamente logico che ci sarà sempre qualcosa di buono e qualcos’altro di meno buono, dischi molto curati e ricercati ed altri meno, conferme, novità, delusioni, capolavori (questa mania della ricerca spasmodica del capolavoro a tutti i costi, poi, che ansia e che tristezza…), banalità, revivals di questo e quello e tanto altro. Quello che molti addetti ai lavori prendono in esame in questi articoli riassuntivi e nelle relative classifiche non è altro che la punta della punta della punta dell’iceberg: in sostanza, il nulla. E il nulla comparano, secondo parametri per lo più imperscrutabili, forse ignoti anche a loro stessi, e se anche fossero noti e ampiamente adottati, sarebbero completamente inutili. E sono anche sicuro (o, per lo meno, voglio pensarlo) che molte di queste persone che si prodigano in tali analisi dove si spendono parole su parole e si spremono neuroni per inventare (per l’ennesima volta) qualcosa di nuovo da dire, sono consapevoli di questo. Se non lo sono, bé, è un bel problema; se lo sono, allora mentono sapendo di mentire.
Ha senso, quindi, concentrarsi su una pozzanghera quando affianco abbiamo l’oceano? Che senso hanno in questo periodo storico le classiche classifiche di fine anno? Non sarebbe più onesto – più sano – ammettere che queste operazioni non sono nient’altro che frutto delle proprie inclinazioni, delle proprie scelte, dei propri gusti? Della propria soggettività, sacra ed inviolabile? Già li vedo: un coro di SIIII s’alza al cielo, accompagnato da È chiaro È ovvio Ci mancherebbe Grazie al cazzo. Eh già, grazie al cazzo. Allora io chiedo: se ben sapete che ogni tentativo di razionalizzare lo scibile musicale in classifiche ed elenchi è solo un vano tentativo di ammantare con una pretesa di oggettività ciò che non può essere – di per sé – oggettivo, allora perché continuate a stilare e scrivere queste classifiche e questi articoli? Perché nel XXI secolo proseguite imperterriti in queste sterili operazioni che prendono in giro l’intelligenza di tutti? Liberatevene. Lasciate andare. Il fatto che si sia sempre fatto così non è mai una giustificazione valida. Cercate di essere superiori a questi stupidi giochini delle classifiche: hanno fatto il loro tempo. La musica è una cosa troppo, troppo grande per essere presa in giro in questo modo. Classificare chi è meglio e chi peggio in arte è la più grande mistificazione che l’uomo possa mettere in atto. Un danno enorme, irreparabile, che ci priva di fette importanti di ciò che di più bello ci circonda. Ma come osate, mi chiedo, salire in cattedra, puntare dita e dire chi va bene e chi no, chi è meglio di chi, affibbiare primi, secondi, terzi, trentaduesimi posti? Ma dico, la musica è per caso una gara ad ostacoli? Certo che no, e chi intende tutta l’arte in questo modo, non merita di goderne neanche per una frazione di un secondo.
Anch’io ho raggruppato gli album che più mi hanno colpito, nel bene e nel male, nel corso del 2021. Li ho suddivisi in playlist, a seconda del MIO grado di apprezzamento, del tutto personale e soggettivo. Non sono classifiche, non rispettano nessun ordine se non quello del puro e semplice piacere dell’ascolto: ad esempio, nella playlist in cui ho messo roba che non mi è piaciuta potreste trovare un artista o un disco che a voi, invece, ha fatto impazzire, e così via per le altre playlist, com’è giusto che sia. La cosa curiosa e divertente è che limitandosi ad elencare senza classificare, tutto ciò che è contenuto in queste playlist non è opinabile e soggetto a qualsiasi possibile critica, cosa che invece puntualmente accade quando una testata musicale pubblica le sue benemerite classifiche, scatenando le più disparate opinioni, valutazioni, pareri e giudizi sui perché e i per come (e perché non c’è tizio al primo posto? e perché avete messo tot posti per la vostra classifica? e perché manca questo e quello? e così via all’infinito, inutilmente). Divertente: proprio ciò che pretende massima oggettività – la classifica – alla fine si rivela essere massimamente soggettiva; al contrario, un semplice elenco in cui sono riportati gusti e preferenze è impermeabile a qualsiasi critica o giudizio. Le due istanze si sono invertite.
Cosa dovrei aggiungere ancora? Dovrei davvero mettermi a scrivere uno di quei cazzo di articoli introduttivi che tirano le somme dell’anno? Cosa dire che non sia già stato detto, sul covid, sul timido ritorno ai concerti subito stroncato dalle impennate dei nuovi casi, sul fatto che produttori ed artisti hanno cercato di puntare più sulle uscite che sui concerti, e quant’altro? L’unica cosa che bisognerebbe sottolineare è che la musica è viva e vegeta nonostante il mondo stia andando sempre più a rotoli, e che non si tributa mai abbastanza gli artisti e i musicisti che ci rendono partecipi dei loro mondi messi in musica; lo stiamo vedendo ora, durante questa emergenza sanitaria, ma il menefreghismo delle istituzioni e di buona parte del pubblico verso il mondo della musica fuori dai circuiti mainstream era già presente ben prima del covid. Ma la buona musica saprà sempre risplendere, salvare vite e costituire l’anima del tempo, sia esso soggettivo che del mondo. E continuerà a farlo anno dopo anno, passando sopra articoli, classifiche, numeri, streaming, visualizzazioni e al resto del rumore di fondo. Continuamente, per sempre.
Le seguenti playlist sono in continuo aggiornamento. Ascoltare buona parte (qualunque cosa questa espressione significhi) di ciò che esce quotidianamente è un’impresa e gli stessi ascoltatori dovrebbero essere pagati per il loro tempo impiegato in questo sforzo.
MY 2021 – la roba che mi è piaciuta di più uscita nel corso dell’anno
JUST OK/FRIENDZONATI 2021 – Cose belle o solo ok che avrebbero potuto far breccia nel mio cuoricino, ma che per qualche motivo invece no. Ma rimangono comunque molto belle oppure ok
GUILTY PLEASURES 2021 – Cose ascoltate di cui (non) vergognarsi. Ma tutti abbiamo una falsa coscienza e tempo per mentire a noi stessi
NOTE RUBATE ALLA METALLURGIA 2021 – Cose ascoltate durante l’anno che non mi sono piaciute, scusate