Durante la pandemia e in particolare nei mesi di lockdown in cui la maggior parte delle quotidiane attività si sono fermate, sono usciti numerosi album e brani ispirati o direttamente influenzati dal nuovo stato di cose che il coronavirus ha necessariamente imposto sul mondo. Anche se ancora scarseggiano opere che tentino di osservare questa nuova realtà da una lente più critica e politica (antivaccinisti e coloro che sono contro le misure d’emergenza hanno già trovato modo per dare forma musicale alle loro posizioni), la tendenza fra gli artisti nell’ultimo anno e mezzo è stata sia quella di rifugiarsi in una sorta di escapismo per sfuggire al caos quotidiano in favore di una realtà altra, che di adottare una narrativa prettamente centrata su se stessi e sulla propria vita in lockdown.
Proprio al primo scenario appartiene Karwan, quarto lavoro in studio dei milanesi Duna, pubblicato a settembre, in un momento in cui la vita sta lentamente cercando di riassestarsi sui soliti binari uscendo dal letargo dei lockdown, mentre prevale ancora molta incertezza e paura del mondo “fuori”. Non è un caso, quindi, che gli undici brani del disco siano liberamente ispirati ad un’opera letteraria singolare ed anch’essa dal vago sapore evasivo, ma non certo dal mondo, ma semmai dalla realtà costituita ed accettata: l’Atlante dei Paesi che non Esistono, del geografo e studioso britannico Nick Middleton, il quale ha tratteggiato i profili di 50 paesi dai confini fluidi e a volte indefiniti – ma non per questo meno reali di tutti gli altri, in quanto abitati da persone in carne ed ossa, con una propria storia, moneta e bandiera – ma che non trovano riconoscimento diplomatico o un seggio fra le Nazioni Unite. Un mondo dentro al mondo, una mappa invisibile percepibile soltanto se si è disposti ad andare al di là di ciò che è istituzionalmente accettato e che, di fatto, costituisce la limitata realtà nella quale noi tutti ci muoviamo.
Con Karwan, i Duna ci invitano al viaggio per le vie di questo microcosmo, trasportandoci con la forza della loro musica oltre quel limite definito, in una dimensione che è al di là del tempo e dello spazio e che, per questo, trascende l’umano razionale.
Se già Green Math aveva dimostrato ciò di cui il quartetto era capace – una rielaborazione in chiave sincretica della musica Tamashek sotto una lente psych-rock – Karwan riesce ad andare oltre. E questo significa che i Duna sono riusciti a trascendere le loro stesse esplicite influenze per approdare ad una forma stilistica quanto più possibilmente personale. Certo, permangono ancora i bagliori di quell’immaginario “desertico” e la sabbia rovente delle carovane si insinua ancora fra le pieghe delle tuniche; non potrebbe essere altrimenti, visto che il punto di partenza dei Duna è sempre stato quel tipo di suono, rituale e ritmico, leggero e caldo come il vento del deserto. Ma questa volta la materia viene ancora più lavorata e levigata rispetto al passato, piegata con gusto e attenzione ai particolari verso ciò che il gruppo vuole trasmettere nell’ascoltatore. L’obiettivo è talmente tanto ben raggiunto che l’evocazione di scenari ed atmosfere è immediata, completamente senza filtri e vivida. Un esempio su tutti: la tumultuosa cavalcata di Khan El-Khalili, un brano di soli tre minuti il cui incredibile livello di coinvolgimento è dato proprio dalla sua semplicità. Gli strumenti sembrano inseguirci implacabili fra le strade di una città come El Cairo, Tunisi o Casablanca, dove uomini a volto coperto ci stanno dando la caccia; gli incastri fra le plettrate di chitarra e le percussioni creano un moto continuo, caricando il pezzo di tensione e travolgendo anche quei brevi momenti di apertura posti in mezzo alla composizione. È sempre bene ricordarsi che la sezione ritmica dei Duna è composta esclusivamente da percussioni, e forse la loro importanza e unicità nel sound complessivo del gruppo non è mai emersa in maniera così evidente come in questo brano, tanto che è difficile immaginare di poter raggiungere lo stesso risultato con una batteria al loro posto. Il taglio cinematico dei nuovi pezzi è sicuramente uno dei punti di forza delle canzoni, il fondamento stilistico che proprio su Karwan raggiunge una maggiore compiutezza d’intenti e di mezzi; da questa prospettiva le percussioni giocano quindi un ruolo fondamentale, e senza di esse la musica assumerebbe tutto un altro profilo.
Se la sezione ritmica è da sempre il cuore pulsante della musica dei Duna, la chitarra e il basso sono il sangue che scorre nel corpo della musica del quartetto: in Karwan, infatti, entrambi gli strumenti sembrano aver fatto un ulteriore salto di qualità in termini di tecnica e di arrangiamenti. La chitarra sviluppa fraseggi più complessi, con armonie e arpeggi che a volte richiamano certo math-rock; il basso è impegnato invece a ritagliarsi più spazio nell’economia dei brani, arricchendo melodie e arrivando lì dove la chitarra sembra solo voler puntare. Di conseguenza, il sound del disco ne risulta più ricco e variegato, quasi con accenti prog, ampliando ancora di più le future possibilità della musica dei Duna. Anche la produzione acquista un altro valore proprio in virtù dello stile qui adottato: nonostante in più punti rischi di affossare gli strumenti, soprattutto nei momenti più concitati, riesce ugualmente a donare un colore peculiare ai pezzi, come una patina di terra rimossa da un antico ritrovamento sonoro proveniente da un luogo lontano e dimenticato.
Il resto di Karwan non è assolutamente da meno, con una tracklist molto compatta, senza particolari cali di tono e che riserva sorprese ad ogni brano: dall’incedere battagliero di Dinetah (la cui parte centrale può per un attimo ricordare alcune cose dei Tool più meditativi) al sali e scendi di atmosfera di Pridnestrovie (nome che indica la Transinistria), tesa e sospesa su di un filo leggero che, una volta spezzato, lascia fuoriuscire il fragore di un basso roboante, passando per l’ondeggiare ipnotico e sensuale di L.S.U., nient’altro che un delirante miraggio indotto dal veleno di un cobra, e così via, fino alla fine di un’opera dove ogni brano è un viaggio possibile, un itinerario della mente che sorvola terre e popoli al limite fra reale e immaginario. Inutile a questo punto tirare in ballo classificazioni limitanti come quella di “world music”, etichetta che poteva in qualche modo essere appiccicata a Green Math: Karwan opera un piccolo ma decisivo scarto per imboccare una traiettoria che, pur continuando a giocare con i classici stilemi del genere, va poi altrove, in territori immaginari, e proprio per questo più autentici di tanta world music posticcia ed artefatta. Queste sono piccole colonne sonore scritte per i propri film interiori senza nessuna pretesa di “verità” o “realismo” al di fuori della propria verità.
Karwan, di certo l’album più compiuto e personale finora registrato dai Duna, è un inno alla fuga e al senso di mistero che avvolge ancora il mondo, un luogo che crediamo di conoscere ma che invece rimane ancora al di là della nostra comprensione. E proprio per questo, quindi, un disco necessario, ora più che mai.