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L’oblio è una benedizione: The Father e The Caretaker, note e immagini in erosione

Nel film The Father la musica ha un suo ruolo, anche se non esattamente preponderante. È leggermente più defilato, come se volesse osservare da lontano la storia di Anthony, un anziano interpretato da Anthony Hopkins e affetto da demenza. Non è tanto alla musica di Einaudi a cui mi riferisco, ma agli estratti delle opere che accompagnano le giornate del protagonista: il terzo atto del King Arthur di Purcell, Casta Diva dal primo atto della Norma di Bellini e la romanza Credo di sentire di nuovo, tratta dal primo atto dei Pescatori di perle di Bizet.
I brani di Einaudi vengono usati nel film soprattutto come temp-track, risultando come mero sottofondo alla vicenda e senza che riescano a creare un legame profondo con la storia o i personaggi; sembrano intenti più a riempire i vuoti fra un’azione e l’altra anziché dialogare con le immagini. Una scelta del genere non è affatto incomprensibile, visto che è molto utile in fase di editing per avere un’idea di come costruire una scena tramite l’ausilio di parti musicali non invadenti. Da questo punto di vista, la musica di Einaudi è estremamente funzionale; il problema semmai è che si è deciso di lasciare a questi pezzi (tutti tratti dal progetto Seven Days Walking del 2019) il compito di costruire un adeguato commento musicale. Che però risulta praticamente inesistente, completamente in sordina.

Tutt’altra storia, invece, per quanto riguarda le arie dalle opere di Purcell, Bellini e Bizet. L’uso che ne viene fatto è mirato a ciò che il film vuole trasmettere, dialogando con la vicenda e mettendosi di fianco al protagonista. Il film lo mostra subito sin dalle scene iniziali, quando, attraverso l’accompagnamento di uno dei brani, introduce Anthony nella storia. Lo stacco sonoro da extradiegetico si fa improvvisamente diegetico, ed ecco che vediamo l’anziano signore seduto nella sua stanza mentre nelle cuffie risuonano le note di Purcell, in un crescendo di tensione più adatto ad un thriller che ad un dramma sulla demenza senile, una contraddizione illuminante che mostra tutta la particolarità dell’opera di Zeller. È la musica che introduce il protagonista, e proprio nel bel mezzo di una delle sue attività preferite, l’ascolto di un disco, uno dei momenti in un cui Anthony ha la possibilità di allontanarsi da tutto e tutti, perfino dalla sua malattia, traendo un po’ di pace e autentico piacere (in un’altra breve sequenza lo si vede che sorride mentre guarda dalla finestra un ragazzino che gioca con una busta trasportata dal vento). La presenza della musica non è qualcosa di secondario nella vita di Anthony, non è un mero passatempo; è più simile ad una medicina che riesce a placarlo e che chiarisce la sua mente, magari facendogli rivivere vecchi ricordi del suo passato. Quando non ha le cuffie posate sulle sue orecchie, l’uomo si trova catapultato in una realtà che gli scivola costantemente di mano, ritrovandosi in balia di eventi che non riesce a comprendere. In due occasioni su tre, Anthony viene interrotto mentre sta ascoltando le arie delle opere, come se il mondo esterno cercasse in tutti i modi di privarlo di quel semplice atto che potrebbe in qualche modo riconnetterlo con se stesso e con la sua labile coscienza. Ma è anche Anthony stesso che blocca volontariamente la musica, quando ad esempio si trova in cucine e dalla sua radio fuoriescono le note della Casta diva: in quel momento non vuole ascoltare, cosa che d’altronde l’uomo fa ripetutamente ogni volta che chiunque gli ricordi di essere malato e bisognoso di aiuto.
È come se la musica riuscisse a ribaltare la logica della malattia invalidante che affligge la sua vita: entrambe lo riducono ad un bambino, ad un essere indifeso e bisognoso di cure, ma la differenza risiede nel fatto che la malattia lo priva di un qualsiasi senso di sé e del mondo, mentre la musica, al contrario, lo aiuta a trovare una via d’uscita. È una fuga, anche se momentanea, verso altrove.


E proprio verso altrove lo trasporta la malattia, erodendo lentamente ed inesorabilmente il senso di realtà circostante. Spazio e tempo sembrano attorcigliarsi l’uno sull’altro – l’uno nell’altro – come un sogno assurdo e surreale. Uno dei modi con cui opera la mente sofferente di Anthony è attraverso la ripetizione: gesti, parole e pensieri rincorrono se stessi e non riescono a trovare uno sbocco per dar vita a conseguenze ed effetti. La mente rimane intrappolata in una gabbia costruita dalla mente stessa, ed è per questo che Anthony non può fidarsi neanche di se stesso, perché man mano che il film avanza altrettanto fa la malattia, diventando sempre più “qualcos’altro”, un’entità “indipendente” dal corpo che la ospita. È in questo modo che essa prende possesso dell’intera vita dell’anziano protagonista, il quale non sarà più tale ma al massimo un co-protagonista: è la demenza, o meglio il processo di graduale decadimento cognitivo, la vera protagonista di The Father. La grandezza di Hopkins non è quella di incarnare un personaggio, bensì una malattia.

La ripetizione, quindi. C’è un momento in cui Anthony sta ascoltando l’aria di Bizet seduto sul divano della sua stanza. All’improvviso, il cd nel lettore inizia a saltare, bloccandosi e ripetendo sempre lo stesso punto. L’uomo allora è costretto a togliersi le cuffie, tirare fuori il cd dallo stereo e ripurirlo per bene. Anche in questo caso la musica entra in contatto con la condizione di Anthony, manifestando in maniera simbolica la reiterazione continua che la demenza comporta. Tanto più un atto, un pensiero o una parola vengono ripetuti, tanto più essi perdono di significato. Perdono di realtà. Vengono svuotati, e così anche la musica che, nonostante sia l’attività preferita di Anthony, si ritrova imbrigliata nello stesso processo degenerativo che erode e consuma.

Questo processo di erosione e reiterazione messo in scena in The Father è riscontrabile anche in Everywhere at the End of Time, opera elettronica monumentale di Leyland Kirby (alias The Caretaker) che, come uno specchio, mette in musica proprio il graduale sviluppo dei sintomi della demenza, in particolare quelli correlati all’Alzheimer. Esattamente come nel film, nelle sei ore e mezza di musica le melodie campionate vengono progressivamente fatte passare attraverso delle fasi sempre più profonde, rappresentative dei vari stadi della demenza. La musica va incontro ad un processo di continua saturazione per cui inizia ad essere avvolta man mano da una nube grigia e spessa che alla fine diverrà la realtà sonora totalizzante di questa mente messa in musica. Le melodie e i frammenti delle composizioni campionate diventano ad ogni fase sempre più irriconoscibili, sempre più disturbati e alterati. La perdita di qualsiasi contatto con il mondo è resa attraverso suoni che vanno e vengono, granulosi, come onde del mare che lavano e cancellano ogni traccia costruita dalla memoria.


Cosa rimane alla fine? Cosa si può trovare alla fine del tempo? Questo schermo grigio, simile a quello di una televisione non sintonizzata, è totalizzante; è annichilente e inquietante perché è la voragine del nulla che si spalanca non sotto di noi, bensì dentro di noi. È il nostro stesso corpo che si autodistrugge, che non vuole più vivere, che vuole allontanarsi dal mondo. Che lo rinnega. È l’allucinante dimostrazione di quanto sia futile e fragile lo sforzo che la coscienza mette continuamente in campo per rendere tutto – l’interno e l’esterno, il sé e il mondo – intellegibile. Le parole allora perdono qualsiasi possibilità di illuminare questo nuovo cammino. Sono completamente inutili. Sbagliate.
Eppure c’è qualcosa di paradossalmente meraviglioso in questo processo di perdita totale. Perdere se stessi e il senso del mondo non può anche essere una benedizione? Niente più paure, desideri, ambizioni, giudizi, necessità. Tutte cose umane, tutte cose che darebbero spinte vitali, se non fosse che comportassero così tanta sofferenza per poterle portare a compimento. Ecco allora che forse la mente sceglie di allontanarsi da tutto, soprattutto da se stessa. Annullarsi diventa una necessità di sopravvivenza, ma anche pace. Sarebbe davvero così spaventoso? Se la memoria è dolore e i traumi sono le sue cicatrici più evidenti, dimenticarsi di ricordare diventa la benedizione ultima.
E la mente potrà ritrovarsi bagnata dalla luce bianca e accecante del sole di primavera, su una spiaggia abbandonata. Suoni lontani, ovattati.
Fruscio del vento fra le verdi foglie degli alberi.
Ombre, e nulla più.

L’amore è una macchina fredda venuta dall’inferno: mutazioni tra Arca e Titane

La protagonista del nuovo film di Julia Ducournau, regista francese che si è aggiudicata la Palma d’Oro nell’ultima edizione di Cannes con il suo Titane, ha una frase tatuata sul petto: “L’amore è un cane che viene dall’inferno”. Chi conosce Bukowski avrà già riconosciuto la citazione, fra le più note del buon vecchio Charles. Sembra una cosa da nulla, uno dei tanti tatuaggi che ricoprono parte del corpo della protagonista, Alexia, quasi un vezzo estetico per caratterizzare ancora di più il personaggio. Eppure, man mano che il film scorre di fronte a noi con il suo turbinio di violenza, umori, silenzi e sguardi, inizia ad assumere un suo significato peculiare e ad illuminare sotto la sua luce obliqua l’intera vicenda.

Perché, in sostanza, ciò di cui Alexia viene privata è un legame d’amore sincero ed incondizionato. Lo si intuisce sin dalle prime scene: la protagonista dimostra già da bambina un precoce attaccamento all’auto nella quale sta viaggiando anziché nei confronti del padre, lontano e indifferente verso la figlia. La placca di titanio che le verrà impiantata nel cranio in seguito all’incidente sarà il suggello di quest’amore mutante fra lei e la macchina, una compenetrazione fra corpo caldo e umano e corpo freddo e meccanico. Un’amore aberrante, fuori dai confini di ciò che è considerato strettamente naturale, e come tale destinato ad essere “maledetto” e rifiutato. D’altronde, la prima cosa che Alexia farà una volta fuori dall’ospedale non sarà quella di baciare i propri genitori, bensì l’auto dell’incidente.

Titane Alexa bambina


Da questo momento in poi, la giovane protagonista, ormai adulta, non farà altro che mettere in scena non tanto la sua “mancanza di umanità” (qualunque cosa questa espressione voglia significare), bensì la propria rinnovata e totale alterità. Critici e giornali si sono concentrati in maniera sensazionalistica sulla sequenza dell’amplesso con l’auto, ma quella parte non è nemmeno la più importante per capire la psicologia della protagonista; è più che altro un momento di passaggio, finalizzato a sottolineare l’ulteriore estraneità di Alexia dai rapporti convenzionalmente accettati. La violenza e gli assassinii di cui si rende protagonista sono sia un modo per proteggersi, magari dalla richiesta insistente di un bacio che alla fine le viene strappato senza il suo consenso o da una famiglia che non l’ha mai realmente accettata, e sia per provare finalmente sensazioni che per lei possano definirsi autentiche. Solo un essere come lei, alterato al punto da emettere olio motore dal proprio corpo, può comprendere la profonda verità del sangue, proprio perché né è quasi completamente priva e perennemente alla ricerca di esso.
Alexia sembra amare il dolore, sia quello provocato sugli altri che su se stessa. Da questo punto di vista Titane è un film molto “concreto”, ovvero riesce a far percepire in maniera diretta ed epidermica il dolore della carne lacerata, sanguinante, battuta. Alexia è una bestia/macchina tutta corpo e sensazioni, ed è proprio attraverso la modificazione del suo corpo che riuscirà alla fine ad instaurare un rapporto profondo – un vero rapporto d’amore – con Vincent, capo di una squadra di pompieri, un improbabile personaggio anche lui lacerato dal dolore per la perdita del figlio.

Il sangue ricorda alla protagonista la sua controparte umana ma, nello stesso tempo, questo istinto assassino che sembra muoverla in maniera cieca è più simile a quello di una macchina fredda e programmata per uccidere; il nero dell’olio che sporca il suo corpo le ricorda immancabilmente la propria controparte macchinica di cui lei stessa ha paura e che sembra non comprendere appieno. In questa apparente dualità trasformativa si esprime la natura di cyborg di Alexia, secondo la teoria queer del Manifesto cyborg di Donna Haraway, una cornice concettuale all’interno della quale Titane si pone immancabilmente e che richiama continuamente. Apparente perché il film, proprio come la Haraway, tende verso una riconciliazione degli opposti umano/macchina in senso positivo, materializzandola in un terzo soggetto non binario che non appartiene completamente né ad un ambito né all’altro, bensì ad entrambi.

Aperta parentesi
lo stesso film è composto da due parti apparentemente contrapposte, proprio come il termine body-horror, genere nel quale Titane è stato inserito anche un po’ forzatamente. Alla Ducournau, infatti, sembra interessare più la parte “body” presente nella seconda metà dell’opera, dove il film assume toni da dramma familiare, mentre la prima parte, quella che è stata fatta risalire all'”horror”, oltre ad essere visivamente più coinvolgente, è solo un pretesto per mettere in scena la protagonista e giocare col senso di spaesamento fra i due frammenti. La bellezza di Titane risiede anche nella messa in scena letterale dell’elemento non binario, grazie alla quale il film si prende molta libertà con i generi, guarda caso proprio come il personaggio di Alexia. Di conseguenza, parlare strettamente o principalmente di body-horror rischia di non rendere piena giustizia all’opera
Chiusa parentesi

Titane auto


Alexia è un soggetto fluido, post-umano, ma non per questo incapace di amare; anzi, come si è accennato in precedenza, è solo attraverso un processo di transizione che Alexia scoprirà di poter intessere legami significativi e addirittura di poter generare nuova vita. Di poter finalmente abbracciare la macchina in modo da renderla innocua perché ormai parte della sua nuova identità. Anche Vincent va incontro ad un trattamento simile: per lui il processo trasformativo rinvia alla debolezza e alla fragilità che risiede oltre la corazza pompata e drogata di certa mascolinità, rappresentata nel film dal piccolo ambiente della caserma dei pompieri, quasi una setta formata da giovani intenti a mostrare i muscoli.
Per entrambi il rapporto d’amore si traduce davvero in trasformazione, ovvero amore che è innazitutto accettazione dell’alterità e comprensione dell’altro, anche quando sembra risiedere in un mondo a noi ostile. In questo modo, entrambi i personaggi riusciranno ad abbandonarsi alla nuova realtà, ed è proprio in quel momento che troveranno la pace. L’amore non è più una creatura infernale ma più che altro qualcosa che è a metà fra inferno e paradiso: una continua messa in discussione e riconfigurazione dei suoi confini.

Ora, trasponiamo tutto ciò che è Titane – Alexia, la sua alterità, la compenetrazione uomo/macchina, la cornice queer e trans-formativa – in ambito musicale. Quale nome potrebbe venir fuori osservando le immagini sullo schermo? Non si andrebbe molto lontano se si citassero alcuni dei nomi afferenti alla corrente dell’industrial e di certa elettronica più sperimentale. Ma al di là di Throbbing Gristle, Foetus o Nurse with Wound e posando lo sguardo sugli ultimi vent’anni, il nome di Arca potrebbe essere quello più adatto a trasporre in musica l’intero apparato filmico e ideologico su cui è costruito Titane. Fra gli artisti contemporanei, Arca è quello che meglio incarna oggi un certo modo di fare musica elettronica che abbia come presupposto teorico proprio la ricerca dell’alterità, nel senso di rifiuto di qualsiasi categorizzazione standardizzata in maniera binaria. Alejandra Ghersi vive completamente l’idea di queerness, proiettandola sia sul suo corpo che sulla sua musica. L’artista infatti si identifica come donna transessuale, e questo elemento non è un semplice un dettaglio o una mera nota biografica: è cruciale, è tutto. È il corpo stesso che per Arca diventa mappa sonica e il fondamento per dare una non-forma ai suoi suoni. Le sue composizioni sono veri e propri corpi sonori che sussultano, si dimenano, irrigidiscono e contorcono perché vivisezionati dal bisturi dell’elettronica. Nella sua musica la violenza è la via che il corpo intraprende per raggiungere la sua verità, intima e profonda, proprio come accade ad Alexia. È un modo per scoprirsi per poi finalmente affermare “soffro, dunque sono”; il tentativo estremo (e quindi extra umano) per cercare di essere quanto più possibilmente autentici a sé stessi. Dal corpo si parte e al corpo si ritorna, ogni volta diversi.


Tutto è manipolabile. Tutto sembra ancora da scrivere e suonare. Quella di Arca è musica non binaria, un flusso sonoro costante e in continuo movimento sul quale sbocciano brevemente piccoli frammenti di melodia, e dove i classici punti di orientamento ritmici e melodici vengono perennemente riconfigurati, proprio come insegnano la scuole avanguardiste di secondo ‘900. Si seguono traiettorie imprevedibili, come fossero tracciate da un’intelligenza artificiale ad alto grado di complessità anziché da un essere umano. Proprio il “tocco umano” viene messo da parte, probabilmente perché ritenuto umano, troppo umano, non adatto a costruire questi nuovi paesaggi dominati da geometrie instabili. Se nei primi due album, Xen e Mutant, l’alterità è spinta al massimo tanto da creare un ambiente altamente artificiale in cui venire immersi, negli ultimi due dischi, Arca e KiCk i, proprio l’elemento umano per eccellenza in musica – la voce – inizia a reclamare i suoi spazi. È proprio qui che uomo e macchina trovano la loro collocazione simbiotica, una riconciliazione che da vita ad una terza via al di là della stessa dualità su cui è impostata gran parte della musica che ascoltiamo: la via del cyborg. Sembra di poter intravedere la stessa natura non binaria che percorre Titane in quanto opera cinematografica mutante, nonché ovviamente il personaggio di Alexia, compenetrazione di umano e di macchina. Il brano Nonbinary, traccia di apertura di KiCk i che visivamente sembra riecheggiare All is Full of Love di Björk, una delle influenze più importanti per la musicista e produttrice venezuelana, suona allora come un manifesto queer aggiornato al XXI secolo, e che avrebbe accompagnato perfettamente alcune delle scene del film, quasi come un videoclip.


La via del cyborg è perfettamente resa in maniera esplicita proprio a partire dalle pubblicazioni degli ultimi anni, come si evince ad esempio dalle copertine di KiCk i e dell’ep @@@@@, quest’ultimo fra le cose più interessanti prodotte da Arca per l’ampia libertà sonora che si concede e per le sperimentazioni in chiave più estrema e pesante per i suoi canoni.

Copertina di KiCk i
La copertina di @@@@@, a metà fra Crash e Mad Max


Proprio sulla cover di @@@@@ troviamo Arca distesa su un auto in un atteggiamento lascivo e sensuale, lo stesso di Alexia nella prima parte del film quando si scatena sulla cadillac durante una convention di appassionati di motori, un ballo esplicitamente erotico col quale si vorrebbe corteggiare la macchina/bestia e che prelude al successivo accoppiamento. In entrambi i casi, la pelle e il corpo si incontrano/scontrano con la durezza del metallo, indicando come il corpo umano sia così facilmente penetrabile da un agente esterno, così facilmente violabile nella sua presunta unità. Il metallo della tecnologia è violenza, contrapposto alla purezza naturale del corpo. Ma ciò che la musica di Arca e le immagini di Titane vogliono esprimere è che questa purezza è solo momentanea e rappresenta solo uno degli infiniti modi di istaurare il nostro rapporto col corpo: sottoponendolo a processi trasformativi, esso rivela nuove verità e spazi ulteriori che riconfigurano le percezioni e quindi il campo del reale.