L’anno scorso sono usciti due album bellissimi sia fuori che dentro: Silver Ladders di Mary Lattimore, arpista di base a Los Angeles, e Shrines, del duo Armand Hammer. A colpirmi non è stata solo la musica contenuta in ciascuno dei due lavori – ambient minimalista dove l’arpa disegna piccoli quadri astratti il primo, un bricolage hip hop di ritmi e rime perennemente cangianti il secondo – ma anche le rispettive copertine.


A mio modo di vedere, sono due due grandi copertine per due motivi principali: riflettono perfettamente la musica contenuta nelle canzoni e, soprattutto, sono esteticamente molto accattivanti. Sono immagini che raccontano storie, anche più di una, risucchiando l’osservatore all’interno dei loro mondi a metà fra reale e immaginifico: la prima con il suo placido distacco, la seconda con aggressività ed impatto. In pratica, così diverse ma anche così simili.
L’aspetto a mio avviso interessante è che entrambe hanno il potere di indicare altri mondi invisibili, come degli incipit per dei racconti o le prime scene di due film. Cosa ci sarà al di là di quella porta in Silver Ladders? Perché quei pianeti sul muro? E quel cane appisolato al di sotto di essi, starà per caso sognando quegli stessi pianeti? Perché diavolo c’è una tigre appostata ad una finestra? E cosa starebbe tentando di fare quel poliziotto? E così via, in un turbine di domande che non fanno altro che aumentare la curiosità nei confronti della musica nascosta da quelle immagini. Ai miei occhi sembrano dotate di una sorta di realismo magico, non nel senso del sovrannaturale come elemento razionalmente inspiegabile o, per l’appunto, magico, ma più che altro inteso come l’intrusione dell’inaspettato, del misterioso e dell’improbabile nella realtà quotidiana. Come una luce che illumina ogni volta in maniera diversa una stanza o una statua, mettendone in risalto o nascondendone determinati aspetti e caratteristiche non osservati prima.
Oltre alle storie che possiamo ricreare per conto nostro, quelle copertine rimandano ad eventi e persone realmente esistenti, magari non direttamente collegati con i temi e il mood dei brani. Questo è particolarmente evidente per Silver Ladders, la cui copertina è un’opera di Becky Suss, artista particolarmente interessata alla ricreazione di ambienti domestici e familiari. Il dipinto – Mic (Lighthouse with Solar System) – ritrae una scena presa direttamente dal libro Cheaper By The Dozens, romanzo autobiografico del 1948 famoso soprattutto negli Stati Uniti. Il libro è stato scritto da Frank Bunker Gilbreth Jr. ed Ernestine Gilbreth Carey, fratello e sorella di una famiglia composta da ben dodici bambini, sei maschi e sei femmine, i cui genitori erano Frank Bunker Gilbreth e Lillian Moller Gilbreth. Se vi state chiedendo chi fossero costoro, sappiate che la vostra ignoranza è giustificata, visto che ai più il nome dei coniugi Gilbreth non dirà nulla, ma dirà tantissimo a chi si occupa di ingegneria industriale, in particolare a chi si interessa ai Time and motion studies, campo specialistico che negli anni ’40 rinnovò la causa del Taylorismo raffinandone le tecniche di parcellizzazione del tempo atto ad impiegare una particolare mansione in un ambiente di lavoro meccanizzato. Avete presente Charlie Chaplin in Tempi Moderni? Ecco, quello. Quegli studi pioneristici sono tuttora impiegati come standard per le aziende in tutto il mondo. Ora, la cosa curiosa è che le stesse tecniche sviluppate dai Gilbreth per quantificare e misurare i processi di lavoro manuale sono state impiegate dagli stessi coniugi all’interno della loro famiglia, ovvero ogni singolo componente aveva un suo specifico compito da realizzare entro uno specifico tempo e in un certo modo. Cheaper By The Dozens racconta in maniera divertente e leggera proprio le peripezie della famiglia Gilbreth e il loro modo di affrontare collettivamente le difficoltà quotidiane, tanto che nel corso del tempo è diventato negli Stati Uniti un classico per ragazzi, grazie anche alle varie trasposizioni cinematografiche (a breve ne è prevista un’altra su Disney+, giusto per sottolineare l’impatto che l’opera ha nell’immaginario USA). Insomma, il libro ha popolarizzato e diffuso il prototipo della famiglia modellata sui principi della produzione industriale.
Cosa c’entra tutto ciò con la copertina dell’album di Mary Lattimore? Un cazzo.
Perché vi ho raccontato dei coniugi Gilbreth e delle loro manie razionaliste? Non lo so. Mi sembrava interessante, tutto qui. Ma soprattutto mi piaceva l’idea di tracciare una linea che unisse in maniera invisibile due cose che apparentemente non c’entrano nulla l’una con l’altra, e che anzi stridono e si pongono agli antipodi: da una parte la delicatezza, la fantasia, i colori, il mistero della copertina di Silver Ladders; dall’altra l’ordine, la razionalità, la disciplina, la freddezza del mondo industriale e dei Gilbreth.
Storie dentro storie dentro ad altre storie.
Diverso è, invece, il discorso intorno alla copertina di Shrines, dove la vicenda di Ming può essere in qualche modo collegata alla visione del mondo messa in musica da Elucid e billy woods.
Chi è Ming? Ma come, non l’avete ancora capito? È il simpatico tigrotto in agguato alla finestra! Ming è ormai un simbolo di Harlem, dove è vissuto sino al 2003 in un appartamento insieme al suo proprietario, Antoine Yates, appassionato di animali esotici (era anche in possesso di un alligatore che teneva in una delle stanze da letto). In breve, il novello Tiger King fu sgamato dalla polizia dopo essere stato al pronto soccorso, dove si era recato per farsi curare dai morsi causati proprio dal suo felino coccolone. Nel frattempo, la storia di Ming era diventata una specie di leggenda urbana in tutto il quartiere, tanto che i vicini di Yates scherzavano sul fatto che lui riuscisse a mangiare 9 kg di carne al giorno; in seguito alla scoperta della tigre siberiana, hanno capito che, insomma, la carne non era esattamente per lui…
Storie di ordinaria follia nella Grande Mela, insomma (in Italia, invece, gli unici “animali” pericolosi sono le bufale sui presunti avvistamenti diffuse da tg e tabloid).
La polizia newyorchese riuscì alla fine ad introdursi nell’appartamento; Ming fu in seguito spostato in un luogo adeguato; Antoine Yates arrestato e condannato.
La morale di questa storia? Mangiare 9 kg di carne giornalieri non è il massimo per la salute.
No dai, seriamente… ma quale volete che sia, la morale? Gira e rigira, è sempre la solita.
Ovvero che a volte ci sentiamo tutti un po’ come Ming: in gabbia. Chiusi e costretti in un luogo, sia esso fisico o mentale, che non ci appartiene e che ci aliena da noi stessi.
Per dirla con le parole degli Armand Hammer:
Don’t you feel like Ming sometimes, man?