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1972-2022: Cinquant’anni di progressive rock, musica inattuale

Nel 1972 un giovane ventenne poteva svegliarsi la mattina, aprire la sua bella copia di Melody Maker o NME, scorrere il ditino sulle varie classifiche di vendita e trovarci, fra le altre cose, roba come Thick as a Brick dei Jethro Tull, Close to the Edge degli Yes e Caravanserai dei Santana. Niente male, eh? Ma tranquilli, non mi metterò a fare paragoni con la scena musicale attuale, sarebbe un giochino inutile e scontato – troppo diversi gli scenari, lontani anni luce gli uni dagli altri per orientamenti stilistici e gusti generali.
Di certo, però, si può affermare che il 1972 è stato uno degli anni in cui un nuovo sotto genere del rock, il progressive rock, ha raggiunto uno dei suoi maggiori picchi creativi più rappresentativi, riuscendo non solo a sgomitare facendosi largo nel nuovo panorama rock dell’epoca, ma anche ad imporsi come LA novità presso i giovani capelloni affamati di suoni inediti, pezzi dalla durata improponibile per le radio, canzoni che più che essere tali erano dei veri e propri viaggi sonici e contorsioni strumentali olimpioniche.
Non c’era più il sogno flower power degli hippies del decennio precedente, ma nonostante ciò la creatività era rimasta al potere; era come se negli anni ’70, musicalmente parlando, si fosse cercata comunque una via altra ma senza mai perdere il contatto con la realtà, anche quando questa risultava cinica e violenta. Anche quando si trasformò in un decennio di piombo.
A mio modesto avviso, anni ’60 e ’70 sono le due facce della stessa medaglia, complementari ma non opposte. Per molti, il risveglio dal sogno psichedelico nel quale erano stati cullati dalla summer of love fu per lo più traumatico: era il tempo di ritornare con i piedi per terra, senza più ingenuità e facili vie di fuga. Quel sogno collettivo era stato luminoso e puro, una danza condotta sotto qualsiasi cielo, per tutti. Ma come tutte le cose più intense, fu destinato a durare poco. Il decennio dei ’70 quindi è stato la campana a morto del funerale degli anni ’60, la stessa campana dell’omonimo primo disco dei Black Sabbath, un gruppo il cui malefico fiore poteva nascere solo e soltanto in quel nuovo decennio.

Personalmente la vedo così: i ’60 sono stati un good trip, i’70, invece, un bad trip. La realtà si stava affacciando sulle soglie delle coscienze, e bussava, bussava forte, e non aveva certo intenzione di andarsene, anche a costo di buttare giù la casa come il lupo con i tre porcellini. Quei ragazzi non più adolescenti o ventenni iniziarono a capire che il mondo e le persone sono cose molto più complesse, contraddittorie e pericolose di quanto vorrebbe farci credere un qualsiasi guru improvvisato: delle lunghe suite prog rock, articolate e labirintiche, pervase da momenti di stasi ed altri frenetici, dove poter cantare i propri inni a squarciagola alzando le braccia al cielo e un attimo dopo immergersi nella cacofonia più totale e nell’alienazione di strumenti che parlano una nuova lingua.
Non era il tempo della contemplazione, ma dell’azione.
Era il tempo, insomma, di abbracciare il lato oscuro della luna.

Non che il progressive rock dei ’70 abbia cancellato con un colpo di spugna la musica di matrice psichedelica del decennio precedente. Anzi, per alcuni versi ne costituisce la prosecuzione attraverso una personale rielaborazione, mentre per altri arriva a negarla. Il tratto comune, però, sarà sempre e solo la sperimentazione: col jazz, con la classica, con suoni acustici ed elettronici e con tradizioni musicali locali. Sono alquanto convinto che il progressive si sia potuto definire tale – che abbia cioè potuto maturare una certa coscienza di sé – nel momento in cui il rock , ovvero, in maniera semplificata, quell’intero universo che era stato partorito dalla sfera musicale inglese dal dopoguerra in poi imponendosi come nuova musica popolare per le nuove generazioni, si è aperto a linguaggi musicali completamente estranei. Nei ’60 ci sono stati ovviamente esperimenti in questo senso – basti pensare ai Beatles che flirtano con i suoni indiani, nonché la stessa cultura psichedelica che guardava ad Oriente. Lo scarto operato dai gruppi prog, però, è ancora più ampio e, per certi versi, più sfrontato: uno strabordare dagli stessi perimetri del rock inglobando tutto e di più. Una sorta di metagenere di quegli anni, anche se può suonare esagerato; ma cos’è il prog rock, alla fine, se non appunto esagerazione? Un frullato, forse, ma non indigesto né tanto meno insapore, ma con una sua ben precisa identità, grazie a quella qualità “narrativa” propria del genere data attraverso l’adozione del concept come format per gli album e, soprattutto, all’alternanza di differenti atmosfere anche all’interno di uno stesso brano.

Apertura ad altri linguaggi, assimilazione totale e capacità narrativa: tre caratteristiche che personalmente reputo fondamentali per orientarsi attraverso la genesi e lo sviluppo del prog. Una fetta di appassionati e di critici reputano dischi come l’omonimo dei Procol Harum (1967), quello dei Caravan (1968) e Days of Future Passed (1967) dei The Moody Blues dei precursori del prog rock, dischi che hanno dato un forte impulso alla nascita del genere e che incarnerebbero di fatto le sue principali caratteristiche. Se da una parte è indubbio che il progressive degli anni ’70 sia stato influenzato dal rock del decennio precedente (e non potrebbe essere altrimenti) ereditando soprattutto quella volontà a voler andare sempre oltre e a sperimentare, tirare in ballo quei dischi significa a mio avviso restringere di molto l’indagine sulla reale origine del genere. Quei dischi, infatti, sono perfettamente inseriti nel filone del rock in voga negli anni ’60, strutturati sulla classica alternanza strofa/ritornello e mancando qualsiasi volontà di voler per lo meno giocare con questi canoni. L’album dei The Moody Blues è quello che si avvicina di più in questa direzione tramite l’introduzione dell’orchestra, ma il suo utilizzo non è per niente integrato nella musica del gruppo, risultando alla fine come un’aggiunta (in molti punti si ha come l’impressione che l’orchestra faccia da semplice intermezzo fra un brano e l’altro) e senza che i due linguaggi, rock e classica, riescano realmente a fondersi per dar vita ad un terzo altro. Nonostante la sua apertura e l’evidente capacità narrativa, Days Of Future Passed non riesce ad arrivare ad una vera e propria sintesi. Insomma, se proprio bisogna tirare in ballo gli anni ’60, credo che The Piper At The Gates of Dawn dei Pink Floyd o il primo dei Soft Machine possano rendere maggiore giustizia, proprio per il loro essere dischi sovversivi pur mantenendo i contatti con le sonorità del loro tempo.

Ma ad ogni modo, il vero terreno dal quale spunterà l’albero del progressive non può che essere a mio modesto avviso quello del jazz – in particolare bebop e free jazz – proprio perché esso offre gli strumenti migliori per poter ampliare moltissimo le potenzialità espressive dei nuovi musicisti. Non a caso il testamento del cosiddetto jazz rock, Bitches Brew di Miles Davis, una delle opere più importanti del ‘900, arriverà proprio nel 1970, allo scoccare del decennio e quando il progressive rock si stava preparando ad invadere le collezioni di dischi. Soltanto un anno prima un altro disco fondamentale aveva aperto crepe irreparabili facendo scorgere ciò che si celava al di là del consueto musicale: In the Court of the Crimson King dei King Crimson, summa delle tre caratteristiche del prog di apertura verso nuovi linguaggi, assimilazione e potenza narrativa. Un mosaico raffinatissimo che non solo riesce ad incarnare un intero genere ma che, come ogni vero capolavoro, lo supera per trasfigurarlo in qualcos’altro. Bitches Brew e In the Court of the Crimson King sono due terremoti che spostano i continenti della musica popolare del secondo novecento: il primo indica la nuova strada al jazz, il secondo al rock. Entrambi però si riflettono l’uno nell’altro, riuscendo ad andare oltre le rispettive tradizioni musicali per ritrovarsi miracolosamente in un luogo ancora oggi sconosciuto e al di là di generi ed etichette: quello del dominio dell’arte.

A mio avviso, ascoltare un album prog si avvicina molto all’esperienza della lettura di un romanzo o alla visione di un film. Progressive, progressione: passaggio fluido, graduale e costante da uno stadio ad un altro, proprio come le micro sequenze di cui si compone un’opera cinematografica o le pagine di una storia. Il fascino di questo genere è proprio questo: mettere su un disco è come sedersi intorno ad un fuoco, indossare le cuffie come prepararsi ad ascoltare ad occhi spalancati pronti per essere inondati di meraviglia, stupore e terrore. Il prog preferisce raccontare le sue storie tramite suoni e ritmi, perché a volte le parole dei testi sono superflue ed inadeguate, ed è meglio quindi affidarsi a brani completamente strumentali o che prevedano lunghe parti strumentali. La stessa capacità tecnica dei musicisti sugli strumenti deve essere sopraffina ed eclettica proprio perché deve assecondare al meglio questa qualità narrativa del prog: non scrivi un brano come Knots dei Gentle Giant se sai fare solo il giro di DO maggiore suonando accordi aperti.


Ho spesso sentito appellare il progressive rock come un genere “fine a se stesso”, “pomposo”, “freddo”, “sterile”, dedito ad inutili circonvoluzioni mentali. Può darsi… ma sti cazzi! È come criticare il metal perché è chiassoso o il funky perché troppo movimentato: semplicemente senza senso. L’errore di prospettiva risiede nel percepire come sterile manierismo ed esagerato protagonismo quella che invece è stata voglia di forzare i codici della forma canzone della musica popolare fra gli anni ’50 e ’60, processo che è passato anche attraverso l’estremizzazione delle jam di stampo psych rock in una chiave più tecnica e ricercata. Bisognerebbe provare a calarsi un attimo nei panni di un musicista rock di fine anni ’60/primi ’70 per intravedere i limiti e le sovrastrutture che la sua musica si stava ormai portando dietro da almeno vent’anni: a noi, ascoltatori del XXI secolo, tutto ciò sembra scontato ma all’epoca non lo era per niente. Detto con un esempio: se i Dream Theater possono permettersi di costruire un’intera carriera su un’idea di musica muscolare e basata sull’ostentazione tecnica prendendo a modello gli Emerson, Lake & Palmer, questo non significa automaticamente che gli ELP suonino come i Dream Theater. I presupposti delle due band sono diversi.

Per non parlare poi dell’accusa di essere un genere “freddo”, incapace cioè di aprirsi ad un qualsiasi gusto della melodia o ad una sequenza melodica che possa facilmente essere memorizzata. Niente di più falso: i dischi prog degli anni ’70, e in particolar modo i classici pubblicati nel 1972, traboccano di melodie, molte delle quali facilmente orecchiabili e che possono essere fischiettate sotto la doccia. Anche qui: l’errore risiede a mio avviso nel concentrarsi troppo sulla struttura dei brani che, come già detto, cercano di andare oltre gli stilemi canonici dell’epoca, ignorando il resto. Anzi, proprio i gruppi più sinfonici come Yes, ELP e Genesis sono probabilmente quelli più facilmente orecchiabili; basti ad esempio pensare al comparto vocale, pesantemente debitore della sensibilità melodica degli anni ’60.


Un genere come il progressive molto probabilmente oggi non potrebbe nascere, e per tutta una serie di ragioni, inclusa anche quella della riduzione del tempo d’ascolto. Ovviamente gruppi prog continuano ad esistere e a suonare, ma il punto è che il genere in sé ha perso rilevanza generale rispetto a quanto invece succedeva cinquant’anni fa. Ciò che rimane oggi, oltre ad una caterva di dischi meravigliosi ai quali ha contribuito in maniera fondamentale anche l’Italia, è quella capacità del prog di fare da ponte verso una miriade di sottogeneri, filoni e movimenti musicali d’avanguardia, che per chi si affaccia per la prima volta su questo mondo costituisce una piccola mappa insostituibile ed inestimabile. Chi intraprende quel rischioso e meraviglioso percorso che lo condurrà per la selva oscura della musica meno commerciale o anti commerciale, non può prescindere dal prog. Il progressive come metagenere, per l’appunto. Prima o poi ci si imbatte in esso, e da quel momento in poi diventerà il proprio Virgilio.

Urla, terrore, ansia e raccapriccio, ovvero l’ennesima playlist di Halloween

Ma anche orrore paura follia trauma psicosi paranoia cospirazione massacro assassinio sangue tortura dolore piacere sadismo miseria colpa espiazione manie persecuzione spiriti morte anime dannazione benedizione oscurità luce abisso disordine caos annientamento pazzia resurrezione unione decomposizione perdita odio amore sesso violenza dominio sacrificio corpo danza pulsazione aria terra

Yep, it’s that time of the year again.

Su quarantasei pezzi, solo due hanno come titolo Halloween, e direi che è un buon risultato. Spunta fuori pure della roba rap, giusto per evitare l’equazione Halloween = rock e metal.


Inutile dire che la composizione più spaventosa è quella di Ligeti.
Special guest: Chopin.
Very special guest: Krysztof Penderecki.
Very very special guest: David Lynch, perché si.


E no, mi dispiace ma non c’è il main theme di Halloween né nessun altro pezzo di Carpenter. A dire il vero, il tema del suo film più famoso c’è ma sotto un’altra veste. Premete play e lo scoprirete subito.














(No, non ci sono nemmeno i Ghostbusters)



Raccapricciatevi!

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L’oblio è una benedizione: The Father e The Caretaker, note e immagini in erosione

Nel film The Father la musica ha un suo ruolo, anche se non esattamente preponderante. È leggermente più defilato, come se volesse osservare da lontano la storia di Anthony, un anziano interpretato da Anthony Hopkins e affetto da demenza. Non è tanto alla musica di Einaudi a cui mi riferisco, ma agli estratti delle opere che accompagnano le giornate del protagonista: il terzo atto del King Arthur di Purcell, Casta Diva dal primo atto della Norma di Bellini e la romanza Credo di sentire di nuovo, tratta dal primo atto dei Pescatori di perle di Bizet.
I brani di Einaudi vengono usati nel film soprattutto come temp-track, risultando come mero sottofondo alla vicenda e senza che riescano a creare un legame profondo con la storia o i personaggi; sembrano intenti più a riempire i vuoti fra un’azione e l’altra anziché dialogare con le immagini. Una scelta del genere non è affatto incomprensibile, visto che è molto utile in fase di editing per avere un’idea di come costruire una scena tramite l’ausilio di parti musicali non invadenti. Da questo punto di vista, la musica di Einaudi è estremamente funzionale; il problema semmai è che si è deciso di lasciare a questi pezzi (tutti tratti dal progetto Seven Days Walking del 2019) il compito di costruire un adeguato commento musicale. Che però risulta praticamente inesistente, completamente in sordina.

Tutt’altra storia, invece, per quanto riguarda le arie dalle opere di Purcell, Bellini e Bizet. L’uso che ne viene fatto è mirato a ciò che il film vuole trasmettere, dialogando con la vicenda e mettendosi di fianco al protagonista. Il film lo mostra subito sin dalle scene iniziali, quando, attraverso l’accompagnamento di uno dei brani, introduce Anthony nella storia. Lo stacco sonoro da extradiegetico si fa improvvisamente diegetico, ed ecco che vediamo l’anziano signore seduto nella sua stanza mentre nelle cuffie risuonano le note di Purcell, in un crescendo di tensione più adatto ad un thriller che ad un dramma sulla demenza senile, una contraddizione illuminante che mostra tutta la particolarità dell’opera di Zeller. È la musica che introduce il protagonista, e proprio nel bel mezzo di una delle sue attività preferite, l’ascolto di un disco, uno dei momenti in un cui Anthony ha la possibilità di allontanarsi da tutto e tutti, perfino dalla sua malattia, traendo un po’ di pace e autentico piacere (in un’altra breve sequenza lo si vede che sorride mentre guarda dalla finestra un ragazzino che gioca con una busta trasportata dal vento). La presenza della musica non è qualcosa di secondario nella vita di Anthony, non è un mero passatempo; è più simile ad una medicina che riesce a placarlo e che chiarisce la sua mente, magari facendogli rivivere vecchi ricordi del suo passato. Quando non ha le cuffie posate sulle sue orecchie, l’uomo si trova catapultato in una realtà che gli scivola costantemente di mano, ritrovandosi in balia di eventi che non riesce a comprendere. In due occasioni su tre, Anthony viene interrotto mentre sta ascoltando le arie delle opere, come se il mondo esterno cercasse in tutti i modi di privarlo di quel semplice atto che potrebbe in qualche modo riconnetterlo con se stesso e con la sua labile coscienza. Ma è anche Anthony stesso che blocca volontariamente la musica, quando ad esempio si trova in cucine e dalla sua radio fuoriescono le note della Casta diva: in quel momento non vuole ascoltare, cosa che d’altronde l’uomo fa ripetutamente ogni volta che chiunque gli ricordi di essere malato e bisognoso di aiuto.
È come se la musica riuscisse a ribaltare la logica della malattia invalidante che affligge la sua vita: entrambe lo riducono ad un bambino, ad un essere indifeso e bisognoso di cure, ma la differenza risiede nel fatto che la malattia lo priva di un qualsiasi senso di sé e del mondo, mentre la musica, al contrario, lo aiuta a trovare una via d’uscita. È una fuga, anche se momentanea, verso altrove.


E proprio verso altrove lo trasporta la malattia, erodendo lentamente ed inesorabilmente il senso di realtà circostante. Spazio e tempo sembrano attorcigliarsi l’uno sull’altro – l’uno nell’altro – come un sogno assurdo e surreale. Uno dei modi con cui opera la mente sofferente di Anthony è attraverso la ripetizione: gesti, parole e pensieri rincorrono se stessi e non riescono a trovare uno sbocco per dar vita a conseguenze ed effetti. La mente rimane intrappolata in una gabbia costruita dalla mente stessa, ed è per questo che Anthony non può fidarsi neanche di se stesso, perché man mano che il film avanza altrettanto fa la malattia, diventando sempre più “qualcos’altro”, un’entità “indipendente” dal corpo che la ospita. È in questo modo che essa prende possesso dell’intera vita dell’anziano protagonista, il quale non sarà più tale ma al massimo un co-protagonista: è la demenza, o meglio il processo di graduale decadimento cognitivo, la vera protagonista di The Father. La grandezza di Hopkins non è quella di incarnare un personaggio, bensì una malattia.

La ripetizione, quindi. C’è un momento in cui Anthony sta ascoltando l’aria di Bizet seduto sul divano della sua stanza. All’improvviso, il cd nel lettore inizia a saltare, bloccandosi e ripetendo sempre lo stesso punto. L’uomo allora è costretto a togliersi le cuffie, tirare fuori il cd dallo stereo e ripurirlo per bene. Anche in questo caso la musica entra in contatto con la condizione di Anthony, manifestando in maniera simbolica la reiterazione continua che la demenza comporta. Tanto più un atto, un pensiero o una parola vengono ripetuti, tanto più essi perdono di significato. Perdono di realtà. Vengono svuotati, e così anche la musica che, nonostante sia l’attività preferita di Anthony, si ritrova imbrigliata nello stesso processo degenerativo che erode e consuma.

Questo processo di erosione e reiterazione messo in scena in The Father è riscontrabile anche in Everywhere at the End of Time, opera elettronica monumentale di Leyland Kirby (alias The Caretaker) che, come uno specchio, mette in musica proprio il graduale sviluppo dei sintomi della demenza, in particolare quelli correlati all’Alzheimer. Esattamente come nel film, nelle sei ore e mezza di musica le melodie campionate vengono progressivamente fatte passare attraverso delle fasi sempre più profonde, rappresentative dei vari stadi della demenza. La musica va incontro ad un processo di continua saturazione per cui inizia ad essere avvolta man mano da una nube grigia e spessa che alla fine diverrà la realtà sonora totalizzante di questa mente messa in musica. Le melodie e i frammenti delle composizioni campionate diventano ad ogni fase sempre più irriconoscibili, sempre più disturbati e alterati. La perdita di qualsiasi contatto con il mondo è resa attraverso suoni che vanno e vengono, granulosi, come onde del mare che lavano e cancellano ogni traccia costruita dalla memoria.


Cosa rimane alla fine? Cosa si può trovare alla fine del tempo? Questo schermo grigio, simile a quello di una televisione non sintonizzata, è totalizzante; è annichilente e inquietante perché è la voragine del nulla che si spalanca non sotto di noi, bensì dentro di noi. È il nostro stesso corpo che si autodistrugge, che non vuole più vivere, che vuole allontanarsi dal mondo. Che lo rinnega. È l’allucinante dimostrazione di quanto sia futile e fragile lo sforzo che la coscienza mette continuamente in campo per rendere tutto – l’interno e l’esterno, il sé e il mondo – intellegibile. Le parole allora perdono qualsiasi possibilità di illuminare questo nuovo cammino. Sono completamente inutili. Sbagliate.
Eppure c’è qualcosa di paradossalmente meraviglioso in questo processo di perdita totale. Perdere se stessi e il senso del mondo non può anche essere una benedizione? Niente più paure, desideri, ambizioni, giudizi, necessità. Tutte cose umane, tutte cose che darebbero spinte vitali, se non fosse che comportassero così tanta sofferenza per poterle portare a compimento. Ecco allora che forse la mente sceglie di allontanarsi da tutto, soprattutto da se stessa. Annullarsi diventa una necessità di sopravvivenza, ma anche pace. Sarebbe davvero così spaventoso? Se la memoria è dolore e i traumi sono le sue cicatrici più evidenti, dimenticarsi di ricordare diventa la benedizione ultima.
E la mente potrà ritrovarsi bagnata dalla luce bianca e accecante del sole di primavera, su una spiaggia abbandonata. Suoni lontani, ovattati.
Fruscio del vento fra le verdi foglie degli alberi.
Ombre, e nulla più.