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Musica su cui fumare quintalate di Erba Pipa: Bo Hansson – Music Inspired by The Lord of the Rings

Dimenticate Howard Shore. Dimenticate la London Philarmonic Orchestra. Dimenticate Enya.
Lo svedese Bo Hansson compone e registra la sua personale colonna sonora di un ipotetico film del Signore degli Anelli con chitarre, Moog, sintetizzatori, basso, batteria, percussioni, sax e flauto. Tutto questo fra il ’69 e il ’70, decenni prima di Peter Jackson, delle maratone da nerd tolkeniani e di quel gran pezzo di elfo di Liv Tyler.

Hansson sceglie un approccio che è diametralmente opposto a ciò che ci aspetteremmo da una musica concepita per l’epica fantasy del Signore degli Anelli. La mia generazione è cresciuta con quelle scene, con quegli attori, con Gandalf che urla TU NON PUOI PASSARE!; inevitabile che qualsiasi rimando al capolavoro di Tolkien successivo alla metà dei 2000 si scontri con la trilogia di Peter Jackson. Per questo, a mio avviso, chi fra le nuove generazioni decidesse di avvicinarsi al disco di Bo Hansson, si troverebbe completamente spiazzato.

Quella del musicista svedese è musica talmente dissonante per la nostra idea di ciò che riguarda il Signore degli Anelli che, una volta premuto play, ci ritroveremo sprofondati nel divano con uno spinello di erba pipa fra le mani invece che brandire una spada macellando orchi presso il fosso di Helm. La musica del compositore svedese è priva di qualsiasi epicità o di carattere puramente orchestrale, anzi: il suo tocco è minimale negli arrangiamenti e spettrale nelle atmosfere, grazie soprattutto all’uso dell’organo che sembra celebrare una lunga messa in una terra dimenticata dagli uomini. Una scelta stilistica che non fa altro che aumentare quel senso di mistero profondo dell’opera tolkeniana, facendo in modo che una fitta nebbia si innalzi sopra la Terra di Mezzo avvolgendo personaggi, eventi e luoghi. In certi passaggi la musica sembra addirittura tendere verso il silenzio, aumentando la tensione ed instillando un piacevole e leggero senso di spaesamento. Le note cadono spesso e volentieri nel vuoto, i ritmi si muovono sinuosi come per non essere notati. Qui non c’è nessun direttore d’orchestra che, in preda a furori beethoviani o wagneriani, incalza la sua orchestra con impeto romantico, no: qui al massimo si possono scorgere i Pink Floyd suonare per il sole nascente fra le rovine di Pompei.

Library music? Forse, ma il buon Hansson non si limita a tracciare degli schizzi musicali con cui semplicemente accompagnare delle ipotetiche sequenze cinematografiche. Qui c’è di più, e la portata musicale del progetto riesce ad essere personale attingendo da quel crocevia di prog, jazz e psichedelia che fra la fine degli anni ’60 e i primi ’70 costituiva quanto di più interessante la musica popolare stesse partorendo (anche se di prog classicamente inteso qui non c’è neanche l’ombra, al massimo si potrebbe ipotizzare che il disco abbia più tendenze ambient che altro, creando inaspettatamente un ponte per quello che nei decenni successivi sarà il filone della dungeon synth oggi in voga).
Chi cazzo potrebbe immaginare di mettere delle conga in un disco ispirato al Signore degli Anelli??? Ne devi fumare di erba pipa per concepire una cosa del genere! Sarà che forse Bo Hansson ne avrà abusata parecchia quando è andato a registrare il disco nella remota isola di Älgö, nell’arcipelago di Stoccolma, di fronte al mare a -30° e nessun uomo o mezz’uomo nei pareggi per svariati chilometri.

I cinquant’anni del disco si sentono tutti, in ogni passaggio, in ogni nota di quella chitarra acida e tremendamente psichedelica (voci lontane provenienti da Mordor dicono che sarebbe stata suonata niente meno che da Jimi Hendrix…), fra i lampi dei synth e i sussulti delle percussioni. Ed il suo fascino risiede anche in questo: proprio come la storia del Signore degli Anelli è completamente lontana dalla nostra esperienza quotidiana, così l’opera di Bo Hannson sembra provenire da un tempo e da uno spazio mitici, propri del sogno.
La polvere si è appoggiata su questo disco e soffiarla via dai suoi solchi è come attraversare lo specchio per accedere ad un’altra dimensione. L’ascoltatore si siede di fronte al fuoco acceso in piena notte, pronto per essere spaventato ed eccitato da una nuova storia.
Ancora meglio se rullando e facendo girare dell’erba pipa fresca.

Purgatorio a doppio livello

Non era mai successo ma qualche giorno fa sono rimasto incolonnato per ben trenta minuti in un parcheggio nel centro della città. Avevo pagato e tutto, e come altri disperati motorizzati sono entrato nella mia macchina, acceso l’aria condizionato per scacciare dai miei polmoni l’odore fetido impregnato di gas di scarico e umidità e mi sono preparato ad abbandonare quel purgatorio dal soffitto basso.
Non sapendo, però, che da lì a poco si sarebbe trasformato in un inferno.
Trenta minuti in un parcheggio a doppio livello.
Auto incolonnate.
Gente che parla, gesticola, si annoia, ogni tanto strombazza, il più delle volte sbadiglia.
Li guardavo dagli specchietti, e notavo dei grandi punti interrogativi sulle loro teste.

Un tempo che sembra infinito.
Che scivola di lato come nel letto di un fiume, senza guardarsi indietro.

Si possono perdere trenta minuti per uscire da un semplice parcheggio? Quel tempo non ritornerà più, e chissà quante cose si sarebbero potute fare in trenta minuti. Chessò, leggere qualche pagina di un romanzo, vedersi una puntata di una serie (anche se ormai durano un’ora o più), cucinare una nuova ricetta, scopare, farsi una passeggiata nel quartiere, risolvere un cruciverba difficilissimo, scrivere un pezzo su WordPress.
Annoiarsi, pure. Ma potendo almeno scegliere in che modo.

Ora, invece, tutto ciò che rimane sono trenta minuti permeati di senso di claustrofobia, pareti luride e senso di impotenza. Una parentesi, che si sa dove si apre ma non dove si chiude. Perché, a pensarci bene, passare così tanto tempo in un parcheggio a doppio livello non si addice tanto all’inferno, bensì al purgatorio. Perché si attende, e si spera in un segno salvifico che possa illuminare il cammino verso il luminoso cancello che conduce all’uscita del purgatorio a due piani. Neanche Dante avrebbe potuto immaginare qualcosa del genere, e se avesse visto quella fila infinita di auto scure nel quale gli uomini sembrano imbalsamati, forse si sarebbe spaventato.

In quel parcheggio a due piani, ogni persona in attesa di andarsene finalmente per i fatti suoi ha lasciato un pezzo del suo tempo. Non so esattamente che forma abbia, ma so che sta lì. Forse si è appiccicato al pavimento, fra le cicche e i segni lasciati dai pneumatici; si è dissolto nella luce al neon; è stato risucchiato nei condotti metallici, sbattuto da una parte all’altra. E ora cerca una via d’uscita, anche lui. Alcuni frammenti avranno raggiunto i loro legittimi proprietari, magari nel sonno, nelle loro camere da letto al diciottesimo piano di un palazzo. Silenziosi come ladri. Altri, invece, staranno ancora vagando nei condotti, persi nel buio.

Alla fine Caronte ha avuto la forma di un signore minuto, senza capelli, aggrappato alla macchinetta per pagare i biglietti come se temesse che pure quella potesse saltare la barra d’uscita e scappare via nel traffico. Chissà cosa gli sarà sembrata quella carovana a quattro ruote, a lui, guardiano del purgatorio, l’unico a poter decidere delle nostre sorti. A metà strada fra purgatorio e paradiso.
Oppure non gliene sarà fregato un cazzo. Avrà posato il suo sguardo indifferente su quello spettacolo monotono, avrà tirato su un bello sbadiglio e avrà fatto pagare l’ennesimo biglietto. E un altro, un altro ancora e così via.

Sarà stato così anche per me, quando mi sono avvicinato con la mia auto abbassando il finestrino. L’ennesimo idiota che ha deciso di passare trenta minuti della sua vita in quel modo. Ha staccato l’ennesimo biglietto e con esso l’ennesimo sorriso, veloce e distratto, fatto con quelli occhietti piccoli e scuri. Siamo tutti parte di un enorme macchina che gira su se stessa sempre più vorticosamente; l’unica differenza è fra chi se ne accorge e chi no. Ma anche accorgendosene, non è che possa fare questa grande differenza.

Sorpasso la barra e sono fuori a riveder le stelle.
Mi tolgo dalla testa il mio punto interrogativo, faccio per buttarlo dal finestrino ma poi ci ripenso. Lo faccio ripiombare sul sedile del passeggero. Le occasioni per utilizzarlo di nuovo non mancheranno di certo.

Ci vuole un’altra vita.