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Surfare sull’arcobaleno con i Guerilla Toss per sentirsi vivi

Si parlava di prog qualche tempo fa (qui e in parte anche qui), della sua innata apertura verso la sperimentazione e di come questa attitudine sia diventata nel tempo il principale lascito del genere per le successive generazioni future di musicisti. Parlare di progressive rock in senso stretto nel 2022 può suonare anacronistico, ma farlo in senso lato, cioè appunto di “attitudine a la prog rock“, non tanto. Quest’attitudine è viva e vegeta in una marea di gruppi contemporanei: uno di questi sono i newyorkesi Guerilla Toss. Ieri sera li ho visti suonare in città, ed è stato un concerto estremamente carico e coinvolgente, dove il ballo si è mischiato al pogo, il canto alle urla, i synth multicolore alle chitarre slabbrate, l’analogico al digitale.
Il trio (accompagnato dal vivo da basso e tastiere) è reduce dalla pubblicazione del quinto album Famously Alive, un ulteriore passo verso quella rotondità sonora e stilistica avviata dal precedente Twisted Crystal e che non fa altro che smussare gli angoli più appuntiti della loro proposta, rendendola potenzialmente più appetibile ad un pubblico più ampio (per di più è uscito per Sub Pop, quindi gli hipster alla Pitchfork e che vanno al Coachella non avranno problemi ad approcciarsi a loro).
Chiaro che la psichedelia più acida trasmutata direttamente da gente come The Flaming Lips tiene insieme il tutto; quella strana sensazione di essere immersi in una gigantesca bolla multicolore che pervade le narici con fumi lisergici è sempre presente, se non più accentuato, solo che sui pezzi di Famously Alive si innesta una ricerca della melodia prettamente pop molto più marcata. Dal vivo, infatti, pezzi come la title track – che ha aperto il concerto, e non poteva essere altrimenti – Live Exponential e Cannibal Capital fanno subito presa (lo fanno su disco, figuriamoci dal vivo dove tutto è ancor più amplificato!). Non ne parliamo poi di un pezzo come Wild Fantasy, per il quale è impossibile tenere fermi sia testa che culo e che dal vivo, invece, diventa una cavalcata krautrock lanciata a velocità supersonica a bordo del gatto Nyan su un arcobaleno cosmico. Insomma, chiaro no? Se avete voglia di un buon trip, Famously Alive fa proprio al caso vostro.

A dispetto di un un inizio un po’ in sordina e di alcuni trascurabili problemi sul palco, i Guerilla Toss hanno semplicemente spaccato, suonando compatti e puliti. Dal vivo esce fuori tutta la loro tecnica, e cazzo! ci si rende subito conto di avere di fronte musicisti di un certo calibro, principalmente batterista e chitarrista, ma soprattutto il batterista, Peter Negroponte, motore della band dal tocco funk e jazz, ma che non disdegna qualche legnata ben assestata quando il pezzo lo richiede.
Le legnate, già! Non sono mancate neanche quelle, e quanto più la scaletta si è avvicinata alla sua conclusione, tanto più i Guerilla Toss hanno spinto sull’acceleratore con schizzate pazze punk e deliri funk che rimandavano direttamente alla prima parte della loro carriera (a quel disco incredibile di Eraser Stargazer, che sempre sia benedetto!). L’equilibrismo dato fra la pesantezza della sezione ritmica e la leggerezza data dall’intreccio chitarra/voce/synth è una delle qualità più interessanti dei concerti dei Guerilla Toss e che nella loro discografia può essere carpita solo a spizzichi e bocconi, un pezzo lì e un altro qui, per poi dover ricostruire il tutto nella propria mente. Dal vivo la band non si risparmia e spiattella tutti questi frammenti in faccia al pubblico, che non può far altro che apprezzare il sapore di questa space cake super cremosa.

Famously Alive è il disco più “pop” dei Guerilla Toss, l’album rifinito e curato di un gruppo ormai pienamente maturo e che sa di poter giocare con la propria musica come più gli aggrada; un disco, inoltre, scritto e concepito in piena pandemia ma che nonostante ciò parla di come sia necessario ricominciare a vivere e richiamare a raccolta tutte le proprie energie proprio per sentirsi “magnificamente vivi”. I loro concerti sembrano tramutare questa spinta vitale e rimangono ancora selvaggi, rumorosi, esagerati, nonché i luoghi dove è possibile ritrovare ancora oggi in controluce, fra una bolla acida e l’altra, quell’eredità psych/prog di fine anni ’60/primi anni ’70. Una fantasia scatenata, finalmente, e ve lo dice uno che non si faceva un concerto dal marzo 2020.


P.S. Per la cronaca, Grass Shack è uno dei pezzi più belli e pazzi degli ultimi dieci anni.

Quattro donne promettenti: l’urlo delle Otoboke Beaver sconvolge l’Occidente!

L’altro giorno ho visto Promising Young Woman (“Una donna promettente” il titolo italiano del film, e ci è andata bene che a sto giro si sono limitati a tradurre letteralmente il titolo e non a cambiarlo). Ero partito con le migliori intenzioni e con sincera curiosità ma… niente, non mi ha convinto del tutto, forse anche a causa dell’enorme risonanza che ha avuto in lungo e in largo (candidato pure agli Oscar come Miglior film, ha letteralmente fatto impazzire gli americani). Logica conseguenza: le aspettative erano state settate su un livello non altissimo, ma abbastanza alto. Intendiamoci, non è assolutamente un brutto film. A mio avviso, uno dei suoi punti più originali è proprio quello di aver spostato il punto di vista dalla vittima a chi le sta accanto, mostrando come un evento traumatico e violento come quello dello stupro possa coinvolgere emotivamente anche amici e familiari. La vendetta di Cassie Thomas, interpretata da una glaciale, malinconica e disillusa Carey Mulligan, diventa quindi più un’ossessione che un’effettiva ricerca di giustizia, che dominerà ogni aspetto della sua vita, anche quando tutto sembrerà essersi assestato per il meglio. Evidente anche la voglia di voler cercare una propria via rispetto agli stilemi delle classiche luride storie rape & revenge, evitando di sbattere lo stupro vero e proprio sullo schermo ma decidendo di mettere in scena una (purtroppo) vasta gamma di situazioni e atteggiamenti tossici e maschilisti – dal catcalling per strada al vero e proprio stupro di gruppo – che è difficile trovare esposti con altrettanta lucidità e in tutta la loro lampante meschinità in altri film simili. Insomma, non sarebbe affatto male se noi maschietti vedessimo questo film almeno per renderci conto di quanto siamo stronzi e, sotto sotto, molto deboli; per le femminucce di quanto sia necessario alzare la testa di fronte a certi comportamenti e abbattere definitivamente il muro di normalizzazione che circonda questi atteggiamenti per non esserne, consapevolmente o meno, complici.

Tutto bene quindi? Non esattamente, almeno dal mio punto di vista. Promising Young Woman rischia in più punti di diventare didascalico, talmente tanto assorbito dal suo obiettivo principale – denunciare il maschilismo tossico diffuso – che si dimentica di mettere in scena una storia che faccia davvero presa e che scuoti i nervi in qualche modo. Non aiuta nemmeno l’andatura erratica della sceneggiatura, che sbalza la protagonista da una situazione ad un’altra senza una reale soluzione di continuità, pretendendo tanti, troppi atti di fede dagli spettatori. Personalmente, trovo che il film eccelle sul lato comedy, e per due motivi: i dialoghi dominati dai botta e risposta – la scena in cui la protagonista sputa nel caffè di uno dei personaggi maschili principali il quale, consapevolmente, lo beve, è fantastica, prologo ai tira e molla della storia d’amore che occuperà la parte centrale del film e che risulterà la cosa più avvincente – e la sua patina caramellosa e dai colori pastello che fa molto “femminismo pop 2.0” (fondamentale in questo senso la colonna sonora composta da pezzi che vanno da Charlie XCX a Paris Hilton, mentre non pervenuto Anthony Willis, che firma una OST molto classica e molto alla Bernard Hermann, da thrillerone tutto archi e suspence, che sinceramente non trova presa nel film).


Il proverbiale asino casca invece sul lato puramente rape & revenge (il colpo di scena finale non mi ha fatto né caldo né freddo, l’ho trovato troppo prevedibile). Non so, cercare vendetta per lo stupro della propria migliore amica a colpi di parole e sensi di colpa anziché a colpi di katana come in Kill Bill? Ok, ci può stare; il punto è che in Promising Young Woman questo meccanismo rischia di appiattire il tutto e di non essere pienamente efficace.

Mentre guardavo Promising Young Woman avvicinandomi ormai alla fine della storia, ecco all’improvviso un pensiero: e se all’improvviso sbucassero le Otoboke Beaver?


Visto il video? No, perché è tutto lì: la musica, quel misto di hardcore punk e schizofrenia alla Melt Banana; la japponesità; la follia; l’attitudine bad ass e caciarona. Itekoma Hits, il loro secondo album del 2019, ha diffuso il loro nome presso il pubblico occidentale prendendolo a nunchaku in faccia come Bruce Lee: semplicemente un mina vagante, e non si tratta solo di riff e volume, ma anche di un approccio al songwriting più imprevedibile, differenziato, dissonante, che graffia sulla pelle e lascia disorientati. Come la protagonista di Promising Young Woman, le Otoboke Beaver smerdano e mettono alla berlina quei comportamenti arroganti e maschilisti di certi uomini sicuri di poter fare il cazzo che vogliono con l’altro sesso. La differenza però risiede nell’attitudine: le Otoboke Beaver tirano calci nei coglioni e si sbellicano dalle risate mentre ti contorci dal dolore. Roba più vicina a Tura Satana e a “Faster, Pussycat, Kill! Kill!”

E se non è chiaro, le quattro giapponesi lo dicono chiaro e tondo con questo pezzo uscito due anni fa e che farà parte del prossimo disco in uscita a maggio, Super Champon: I AM NOT MATERNAL! Un titolo che suona come un manifesto di intenti.
Ribadiamo il concetto e alziamo il volume.


Veloce, sfrontata, colorata e rumorosa: la musica delle quattro Otoboke Beaver è fatta apposta per dare fastidio, è il suono di quelle donne che se ne strafottono di ciò che c’è intorno e tirano dritto per la loro strada. Amiche, sorelle, complici, sicure di poter contare le une sulle altre, la loro è vera “sorellanza” e autentico supporto (nelle foto sui social sembrano delle adolescenti qualsiasi che si divertono in giro, non certo delle rockstar o dei punkettoni incazzati). Nella loro musica c’è l’abbattimento di ogni filtro, ideologico o mediatico finalizzato per darsi un tono: zero cazzate, zero moine, puro e semplice divertimento, finanche infantile, nel senso più puro del termine, perché è al di là del bene e del male.
Per questo donne e musiciste come le Otoboke Beaver possono far paura: perché sono animali incontrollabili, liberi e selvaggi, che gli uomini fanno fatica a tenere a bada con le loro manie di controllo e sottomissione. Il punk delle giapponesi è femminismo combattivo puro; magari pure inconsapevole, ma proprio per questo efficacissimo e pericolosissimo.

Non hanno bisogno di chiedere il fuoco a nessun altro, fieramente lo rubano da sé.

In Promising Young Woman possiamo ritrovare le Otoboke Beaver quando Cassie rompe a colpi di mazza la macchina dell’automobilista molesto fermatosi apposta per insultarla; nello sguardo non curante della protagonista nella succitata scena dello sputo nella tazza di caffè; quando Cassie, a piedi nuda e sicura di sé, fissa senza dire una parola un gruppetto di operai che le rivolgono per strada attenzioni indesiderate, costretti poi ad abbassare intimoriti lo sguardo (altra sequenza memorabile); nella profonda e dolorosa amicizia che la lega alla sua amica Nina, vittima di stupro, per la quale rischierà di sacrificare tutto, anche la sua stessa vita.

Abbiamo tutti e tutte bisogno di donne promettenti di questo tipo.

Radio a Sonagli – Marzo 2022

Partiamo dal principio, dal titolo: non mi convince molto, anzi direi che “Radio a Sonagli” mi convince solo a metà. Mi dovete scusare ma oggi, mentre stavo guidando imbottigliato nel traffico nel tentativo disperato di tornare a casa dopo il lavoro, la mia mente stanca e altrettanto imbottigliata non è riuscita a partorire niente di meglio. Ma quindi cos’è “Radio a Sonagli”? Ah non lo so, non chiedetelo a me! Chiamarla rubrica mi suona troppo pretenzioso. Il suo scopo, però, quello si mi è chiaro: condividere gli ascolti mensili pubblicando una lista alla fine di ogni mese (il 30, il 31 o comunque giù di lì, si potrà sforare di un paio di giorni, ci vuole tolleranza in queste cose, lo sapete, soprattutto per un tipo come me allergico alle scadenze). Uno spazio, quindi, per tirare un po’ le somme e tenere delle tracce, una specie di aperta e chiusa parentesi nel fluire degli ascolti, che spesso diventan fiume incontrollato che rischia di sommergere ogni cosa, pure il piacere dell’ascolto.
Ad aiutarmi ci sarà Topster, ottimo per tirare giù questo tipo di elenchi (con tanto di copertine degli album, non è una cosa super carinissima e molto nerd?), se non lo conoscete vi suggerisco caldamente di farci un giro.

Ci stiamo ancora chiedendo perché questa cosa? Boh, merito del troppo tempo passato incolonnato nel traffico, probabilmente. Il fatto che mi sembri un’operazione divertente e un modo per condividere i miei ascolti con altri appassionati credo che possano bastare e avanzare come valide motivazioni. E poi sto blog va riempito con qualcosa, no? A parte tutto, la condivisione è ciò che sta alla base di RaS, nella speranza di avviare uno scambio di idee ed opinioni fra amanti della musica, ricevendo magari suggerimenti per ulteriori ascolti. E poi c’è un altro aspetto da considerare, un valore aggiunto non indifferente: come accennato, spero di riuscire a tenere traccia della roba che ascolto. Prima non ci facevo caso ma negli ultimi tempi mi sono posto a più riprese la questione di quali percorsi i miei ascolti hanno intrapreso. So da dove essi “vengono”, posso tracciare la loro origine (ricordo ancora il primo CD acquistato, What’s the Story (Morning Glory) degli Oasis, un disco che mi ha introdotto in maniera molto soft nel reame del rock, l’allora via privilegiata per il me adolescente che si apprestava a scorazzare per le vaste e luminose praterie della musica come un cowboy), gli sviluppi avvenuti negli anni, le strade senza vie d’uscita e le differenti ramificazioni. E poi, ovviamente, durante diversi periodi della vita sono corrisposti diversi tipi di ascolti, come accade tuttora e come succede a tantissimi.
In questo momento della mia vita (quale momento? che significa questo termine? dove e inizia e dove finisce, se mai finisce questo fantomatico momento? Quanta arbitrarietà che racchiude questa parola) sono arrivato ad un punto in cui riesco a percepire che la mia predisposizione all’ascolto è quanto più aperta possibile. Possono esserci dei periodi più o meno lunghi in cui magari mi concentro ad ascoltare poche cose perché in quel preciso istante ne ho bisogno, oppure perché voglio vedere come suona qualcosa che conosco a distanza di tempo (ed è successo proprio così per quanto riguarda alcuni dischi in questo elenco di Marzo). Ma ciò che sto ascoltando, per quanto un album o un artista mi abbiano potuto colpire, non diventerà mai esclusivo, bensì un trampolino per poi scoprire dell’altro, ciò che sta oltre quel tipo di musica. Per arrivare anche all’opposto di certe sonorità. Non mi ha mai attirato l’idea del gruppo preferito/artista preferito, non è mai stato realmente il mio modo di vivere la musica, da fan. Sarebbe stato come legarsi ad una sola persona per tutta la vita. La musica, invece, dà la possibilità di vivere in maniera libera ed aperta il nostro rapporto con essa; anzi, credo che per sua natura essa ci sproni quanto più possibile in questa direzione. Rispetto alle altre arti, parla direttamente alla parte più profonda di noi, quella che sfugge al nostro controllo, addentrandosi in luoghi imperscrutabili. Evoca realtà invisibili, eppure più reali del reale stesso. La musica è una cosa grande e spaventosa anche per questo. Personalmente, riuscire a mantenere questa apertura all’ascolto significa godere quanto più possibile di ciò che la musica ha da offrire; privarsene eleggendo un artista, un genere o una corrente al rango di “assoluto musicale” significherebbe rinunciare alla libertà di scegliere.

Ciò che salta subito agli occhi nell’elenco di Marzo è l’assenza di nuove uscite: il disco più recente è 777 – Cosmosophy dei Blut Aus Nord, uscito nel 2012. Non c’è una ragione precisa se non quella che durante i primi mesi dell’anno di solito ascolto ancora roba uscita durante l’anno precedente (ho una lista lunghissima che non riesco mai a smaltire), mentre aspetto che la roba nuova esca man mano per poi iniziare ad ascoltarla per bene più in là. E poi vale sempre la regola aurea number one: ascoltare il cazzo che ci pare, ed ascoltarlo bene. In questo senso, la presenza di tutti quei dischi progressive – Emerson, Lake & Palmer, Balletto di Bronzo, Genesis & co. – è stata dettata dal fatto che ho sentito la necessità di riascoltare un po’ di quei suoni vintage, forse per rievocare un periodo storico lontanissimo dalla mia generazione. Insomma, un tuffo nel passato, fatto tramite un genere, il prog, che riesce letteralmente a far viaggiare la mente grazie alla sua intrinseca capacità narrativa. La grande scoperta sono stati i Greenslade, il cui debutto del ’73 è una perla del genere grazie ad un mix atomico di prog intriso di funk e r’n’b, una formula che li differenzia da altre formazioni del genere di quel periodo. Valore aggiunto assolutamente non indifferente: in quel disco si possono ascoltare quelle che a mio parere sono le migliori linee di basso per un album prog, suonate da Tony Reeves, jazzista inglese prestato all’ambito rock, le cui dita non stanno MAI ferme. Semplicemente una meraviglia. Inoltre, sono arrivato alla conclusione che A Trick of the Tail è uno dei miei album preferiti dei Genesis, nonché il mio album post-Peter Gabriel preferito, stacce! Si percepisce che Wind & Wuthering inizia a virare verso altri lidi, quelli pop anni ’80, che a volte bisticciano con le costruzioni tipicamente progressive e sinfoniche. Eppure, il fascino di quel disco potrebbe risiedere proprio in questa dualità, nei suoni più rotondi e in un approccio complessivamente più accessibile per l’ascoltatore. Con l’addio di Gabriel, il gruppo inglese perde la sua maschera istrionica, e da folle giullare si trasforma in un musicista in giacca e cravatta, attento ad ogni minimo dettaglio e maniaco del controllo. Ognuno deciderà a seconda dei propri gusti se sia stato un bene o un male, ad ogni modo reputo Wind & Wuhtering un disco molto influente per il prog degli anni ’80.
Marzo è stato anche il mese della scomparsa di Mark Lanegan, e non ho potuto far altro che riascoltare almeno i suoi primi due album insieme agli Screaming Trees, che mi hanno letteralmente accompagnato per tutte queste settimane. Nonostante stiamo parlando di musica uscita circa trent’anni fa, The Winding Sheet e Whiskey for the Holy Ghost – il mio preferito del Lanegan solista – sono invecchiati molto bene come un buon whiskey. Il primo, a mio avviso, è il miglior esempio di un riuscitissimo mix fra sensibilità grunge ed essenzialità folk, che, anche se non completamente formato, mostra tutto il talento prematuro di Lanegan, talento che sboccerà compiutamente con il successivo Whiskey for the Holy Ghost e che permetterà al musicista di piazzarsi direttamente affianco al miglior Nick Cave e Tom Waits. Un’opera, quella del 1994 che, nonostante racconta il proprio inferno personale, riesce a descrivere quello di tutti.
Per amor di completismo, due dischi che sono sempre mancati all’appello sono stati Presence dei Led Zeppelin e Down on the Upside dei Soundgarden, due gruppi legati fra loro dalla stessa elettrica e tellurica energia, rispettivamente padri e figli (quest’ultimi più che legittimi) dagli esiti, in questo caso, assai differenti, visto che i figli sono riusciti a superare abbondantemente i padri. Presence, a parte un paio di episodi come Achilles Last Stand e Nobody’s Fault but Mine, mi ha dato l’idea di un gruppo ormai stanco e a fiato corto, la versione pallida e annoiata dei Led Zeppelin dei primi ’70, forse consapevoli della loro fine imminente. Il cambio di approccio, meno muscolare e deprivato dell’aspetto prettamente “hard” della loro musica, sarebbe potuto essere molto interessante e dagli esiti imprevedibili; il tutto però si risolve in un disco tutto sommato stanco, semplicemente ascoltabile ma con la pretesa – e qui risiede, secondo me, il problema alla base del disco – di riproporre pari pari gli stessi, soliti Zeppellin, cambiandone semplicemente la patina esteriore. Presence suona come un’occasione mancata, mettendo malamente fine a quella seconda fase della carriera del gruppo inglese che aveva portato alla nascita di due capolavori come Houses of the Holy e Physical Graffiti. (Nota a margine: mi sono sempre chiesto il perché di quella copertina, inusuale per una band come i Led Zeppelin. Mettendo insieme il titolo del disco, la disposizione circolare dei soggetti e il misterioso oggetto al centro del tavolo, sono arrivato alla conclusione che potrebbe riferirsi ad una sorta di seduta spiritica, evocazione o qualcosa del genere. Chi conosce l’interesse per la mitologia e l’esoterismo di Page e compagni, credo che non avrebbe problemi ad accogliere questa ipotesi).
Tutto il contrario invece per l’ultimo disco (prima della reunion) dei Soundgarden, un’opera capace a mio avviso di essere all’altezza di Superunknown e che affina ulteriormente, se possibile, le capacità di songwriting di Cornell e compagni. Down on the Upside ha solo la doppia sfiga di essere uscito dopo il disco di maggior successo commerciale della band di Seattle e di essere stato l’ultimo lascito prima dello scioglimento, andrebbe invece riscoperto e tenuto maggiormente in considerazione.

Il resto dell’elenco è tutta roba che ho voluto riascoltare per (ri)vedere l’effetto che fa a distanza di anni, e mi riferisco soprattutto ai Pink Floyd – The Division Bell è il loro album verso il quale provo maggiori sentimenti contrastanti, a tratti mi sembra un disco di Gilmour solista, mentre risulta molto buono Obscured by Clouds, vario e capace di anticipare un po’ di cose che si materializzeranno su The Dark Side of the Moon.
Il black metal dei Sargeist, Blut Aus Nord e Wolves in the Throne Room perché si, un po’ di violenza ci sta sempre, così come il jazz, ce lo devi infilare perché se no stai vivendo una vita di merda, e allora guardi la copertina di Miles Smiles e vedi Miles Davis che sorride compiaciuto, e quello ti trasmette tranquillità e un profondo senso di pace, e così pensi: “Ma quale altro disco jazz mi fa sentire così? Neanche la droga, guarda”. E continui a ridere e a sorridere.
Starsailor, Moondog e Y fanno parte di questa lista che ho deciso di seguire per scoprire cose che non conosco oppure per riascoltare con orecchie diverse roba che non ascolto da un sacco. Sono 500 dischi, se dopo un mese ne sono riuscito a riascoltare solo tre con i miei tempi finirò quando sarò in punto di morte…

Per chi invece ha più tempo e vuole ascoltarsi una traccia presa da ogni disco nella lista, ho fatto una apposita compilation su Spotify. Vedrò di farne una allegata ad ogni articolo di Radio a Sonagli, poi non dite che non vi penso!