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Neil Young, cavallo pazzo

Ci doveva pensare un 76enne a smuovere le acque nel mortifero mondo dello streaming digitale. Ci voleva un autore e musicista come Neil Young per provare a far aprire gli occhi alla platea degli ascoltatori casuali, puntando il dito contro la mancanza di responsabilità di un colosso come Spotify e del suo CEO Daniel Ek, il quale, invece che dettare ai musicisti come e quando comporre, farebbe bene a rivedere da cima a fondo la piattaforma musicale di cui fa gli interessi.

Non un nome in voga nelle classifiche; non un esordiente fresco di talent; nemmeno una star internazionale il cui mestiere è la filantropia ma con i conti in qualche paradiso fiscale (qualcuno ha detto Bono?). No, niente di tutto ciò. Ci è voluto quello spelacchiato di Neil Young, basettoni bianchi, occhiaie e pappagorgia, per (ri)mettere sotto i riflettori una verità del nostro tempo, l’assioma portante della civiltà del profitto ad oltranza: che a colossi aziendali come Spotify non frega altamente un cazzo dello stato di salute del mondo. L’importante è fatturare fatturare fatturare! Sempre e comunque. Anche su una pandemia mondiale, sui morti, sulla gente in ospedale, sui disoccupati, sulle famiglie in rovina, sull’esaurimento dilagante, sull’isolamento delle nostre vite. Anzi, soprattutto durante una pandemia, visto che il covid ha fatto crescere ancora di più i colossi del nuovo capitalismo immateriale. I ricchi sono diventati sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.

Perché il buon vecchio Neil ha semplicemente messo queste teste di cazzo nelle condizioni di dover prendere una posizione, finalmente netta e definitiva: o me o Joe Rogan. O la musica o un podcast che nell’ultimo anno ha diffuso disinformazione e teorie del complotto sul covid. Le due cose non possono coesistere su una piattaforma usata da milioni di persone. Attenzione, il musicista non ha preteso che Spotify eliminasse immediatamente The Joe Rogan Experience lasciando invece intatta la sua discografia: se lo avesse fatto, sarebbe stato assai presuntuoso, oltre che alquanto ridicolo ed inefficace. Cosa puoi fare contro un prodotto come il The Joe Rogan Experience che attira in media sugli 11 milioni di ascoltatori al giorno? Contro il podcast più seguito del 2021? E, soprattutto, contro un contratto da 100 milioni di dollaroni stipulato fra il pelatone e Spotify? Una sola cosa: nulla.
O meglio, sputtanarli, magari. Grosse aziende come Spotify, Facebook, Amazon, Apple e compagnia odiano prendere posizione pubblicamente per tutta una serie di ragioni (che poi possono essere riassunte principalmente in una sola: $$$), salvo comunque prendere poi decisioni lontano dai riflettori che automaticamente hanno ricadute sulle vite di miliardi di persone. È per questo che Zuckerberg, ad esempio, sta passando un brutto periodo, scontrandosi con il Congresso negli Stati Uniti che lo torchia sulle sue policies riguardo a disinformazione e fake news. Queste aziende, soprattutto quelle che smerciano in comunicazione come i social e Spotify con i suoi podcast, sanno che tutta quella merda porta cifre con molti zeri. Di conseguenza, non deve stupire che alla fine Spotify ci abbia impiegato tempo zero a decidere chi fra Joe Rogan e Neil Young dovesse lasciare la piattaforma.

Che fosse un gioco “truccato” lo si sapeva sin dall’inizio: nessuno sano di mente – né tanto meno lo stesso Young – si aspettava infatti che Spotify avrebbe rinunciato al suo podcast più remunerativo per i sei milioni di ascoltatori mensili dell’autore di Harvest. Così come non ci sarebbe neanche bisogno di tirare in ballo il podcast di Joe Rogna Rogan fra i principali motivi per abbandonare la piattaforma svedese: la bassa qualità audio offerta e il misero introito a streaming per gli artisti bastano e avanzano per sfanculare su Marte Daniel Ek e i suoi miliardi guadagnati sulle spalle degli artisti, soprattutto i più piccoli. Per lo meno Neil Young ha fatto la sua mossa mentre tutti gli altri facevano finta di guardare dall’altra parte, mettendoci la faccia e, come specificato in uno dei suoi comunicati, rimettendoci pure una discreta percentuale di guadagno dai suoi streaming, visto che solo i grossi nomi riescono a racimolare qualcosa dalle piattaforme musicali. L’aspetto economico può essere uno degli elementi che frenano personaggi oggi ben più noti di Neil Young dal rivoltarsi contro l’azienda svedese: gente come The Weeknd, Taylor Swift, Justin Bieber o Adele usano Spotify per meglio promuovere la loro musica, raggiungendo un target giovanissimo di ascoltatori che usufruisce costantemente delle piattaforme di streaming. La loro immagine e il loro successo è legato a doppio filo alla musica digitale. Proprio questi grossi nomi sarebbero quelli che potrebbero davvero mettere Spotify in difficoltà: se non lo fanno è perché alla fine non vogliono rischiare.

Ma non è una questione esclusivamente economica, né generazionale (tanti artisti della stessa generazione di Neil Young non si sono espressi, per lo meno non in questo modo). Fama, immagine, obbligazioni contrattuali che legano le mani agli artisti e convinzioni personali possono concorre insieme portando all’immobilismo. Il povero David Crosby, ad esempio, vorrebbe seguire l’esempio del suo ex compagno di band ma, semplicemente, non può.
Alla luce di queste considerazioni e di tante altre che possono essere fatte, la scelta di Neil Young – e di quell’altra dea di Joni Mitchell che ha deciso di seguire subito la stessa strada del suo collega – di prendere posizione e, soprattutto, di forzare la mano con un colosso come Spotify, assume un valore molto importante e particolare. A mia memoria, non ricordo un nome noto del genere che in tempi recenti abbia cercato di boicottare uno di questi padroni 2.0 del mondo, andando anche contro i propri interessi. È casuale che una mossa del genere venga proprio da due protagonisti della controcultura americana degli anni ’60 e ’70? A mio avviso no, segno che un certo tipo di cultura e visione del mondo è stata purtroppo marginalizzata.

I settantenni sono più ribelli dei ventenni (e si mantengono pure meglio, va che signora la Mitchell!)

Questa storia avrà un seguito? Chi lo sa. Intanto all’indomani del boicottaggio di Neil Young, Spotify ha perso quotazioni in borsa, un trend che va avanti da un po’ di tempo a questa parte. Altri artisti oltre alla Mitchell hanno seguito l’esempio del musicista americano, così come anche alcuni autori di podcast. Personalmente non credo che Spotify arriverà in tempi brevi ad una revisione strutturale sia sul lato del controllo sui contenuti pubblicamente pericolosi che sugli aspetti audio e finanziari per gli artisti. Solo se un numero sufficiente di artisti, musicisti e autori prenderà posizione su queste questioni, andando a colpire lì dove queste aziende sono più deboli, cioè il portafoglio, allora qualcosa potrebbe cambiare. E non dipende inoltre solo dai creatori di contenuti, bensì anche dai fruitori, dal pubblico.

Forse vedremo i frutti di questa vicenda solo più in là oppure non li vedremo affatto. Neil Young ha esagerato? Si pentirà e tornerà sui suoi passi? Per ora non possiamo saperlo, di certo sappiamo però che c’è ancora qualcuno che getta il sasso in questo stagno immobile per smuovere un po’ le acque. Neil Young ci avrà perso dei soldi e la possibilità di farsi ascoltare da qualche giovane (rimane comunque presente sulle altre piattaforme di streaming), ma è importante che un nome storico e noto come il suo abbia alzato questo polverone ed innescato una maggiore consapevolezza.

Insomma, il solito vecchio cavallo pazzo.
Oh, sempre meglio che rincoglionirsi completamente come Eric Clapton!

Nessun noi, solo io: Marracash e il grande abbaglio

Che certo giornalismo musicale italiano sia completamente allo sbando non suonerà di certo come una novità; se si tiene conto, poi, il contesto nel quale opera al giorno d’oggi, sembra davvero impossibile poter fare un’informazione musicale corretta, contestualizzata, interessante ed equilibrata. Il mondo della comunicazione è schiacciato da processi sempre più grandi e veloci, fra cui una lotta continua per ottenere sempre maggiore visibilità e la forsennata saturazione della scena musicale che non lascia il tempo di digerire adeguatamente alcunché. Finisce un anno, si tirano le somme e via di nuovo da capo, come un ruota che gira da sola senza nemmeno l’apporto del classico criceto. È il mondo intero che ormai funziona così, non solo quello musicale, con tutti i pro e i contro del caso, ma mi stupisco sempre di meno nel vedere che in giro aleggia sempre più stanchezza fra le persone e un senso generale di sfinimento, come un corridore che non ce la fa più o un naufrago che cerca di rimanere a galla in mezzo ad un mare in tempesta. Bombardati da stimoli ventiquattrore su ventiquattro, sette giorni su sette, con smartphone e tablet sempre a portata di mano, rifuggiamo la complessità per ritirarci nelle nostre micro bolle, spazi sacri dove trovare conforto e poter ricomporre il profilo del mondo a nostra immagine e somiglianza. È lì che tiriamo un sospiro di sollievo perché è lì che ci sentiamo al sicuro. E non è nemmeno una questione di “saperi”, di “capacità” e “formazioni individuali”: il sapere si è infranto in mille rivoli ed è inteso in maniera così specialistica che anche chi cerca di informarsi adeguatamente alla fine sente sempre quel senso di sopraffazione montare al suo interno. La disorientante sensazione di essere seduto in un treno lanciato a 400 km/h la cui meta è completamente ignota. O forse solo destinato a girare in circolo, per sempre, fino a quando non deraglierà nel baratro sottostante.

Non so cosa possa c’entrare questa introduzione con l’ultimo disco di Marracash, Noi, loro, gli altri. O meglio, con alcuni giudizi letti in giro per la rete che definire glorificanti è dire davvero poco. È stato scomodato De André, e sarebbe solo un’operazione per attirare l’attenzione verso l’articolo se non fosse che proviene da una delle riviste italiane capace di creare hype anche intorno ad un lavandino gocciolante. Marracash è stato appellato come intellettuale per il suo presunto tentativo di raccontare il presente. Noi, loro, gli altri è stato indicato come il nuovo La morte dei miracoli di questo decennio. Giudizi esagerati, parole fuorvianti, un’idea del disco in questione che sembra più urlata e accecata dalla meraviglia che prodotta dal reale riscontro con la musica.
Qui il problema non è Marracash o il suo ultimo disco, che è probabilmente ciò che di meglio il mainstream italiano ha da offrire al momento in ambito rap-pop: pezzi solidi, produzione curata, paraculate si ma limitate. Il problema è ciò che si vede nell’album, quello che vorremmo che sia ma che in realtà non è: un testamento intellettuale, una visione critica sul presente, un disco di rottura. Personalmente non so se Marracash si senta come un novello Pasolini o un Durkheim del XXI secolo, ma ciò che certa stampa italiana ha cercato e sta cercando ancora di fare è quello di proiettare le proprie aspettative su questo disco (e automaticamente sul suo autore) in modo da poter fare alla fine ciò che le riesce meglio: vendere un prodotto.

Dove sarebbe lo sguardo critico in Noi, loro, gli altri? Uno sguardo di questo tipo implica sostanzialmente due cose: una certa distanza da ciò che si vorrebbe analizzare e una messa in discussione dei presupposti dell’oggetto preso in esame. Ora, nel nuovo album di Marracash questi due elementi sono assenti e quando cercano di venir fuori vengono immediatamente fatti rientrare nel recinto di una visione normalizzante, superficiale ed anche qualunquista. Marracash non predica violenza, non cerca vendetta e non ha l’aria da sbruffone che gioca a fare il gangster; all’apparenza ha un tono più dimesso – da adulto, come detterebbe la narrazione di Rolling Stones & co. – ma in realtà i suoi versi covano ancora al loro interno una voglia di auto imposizione sugli altri tipica di certo rap più stradaiolo e sopra le righe. Nelle sue nuove canzoni si critica tutto e tutti, ovvero niente, e non si critica niente per il semplice fatto che il vero scopo in Noi, loro, gli altri non è quello di mettere alla berlina potenti, ipocrisie e mal costume generale – obiettivo primario, al contrario, di un lavoro profondamente politico come La corte dei miracoli di Frankie HI-NRG – ma potersi mettere ancora una volta sotto i riflettori per urlare quanto si è puri, sinceri, autentici. Insomma, migliori di tutti gli altri, anche lì dove si scambia l’autocommiserazione per fragilità, vestendo il proprio egocentrismo con toni tragici e lacrimevoli come in Dubbi.


Basta davvero mettere una citazioncina di Mark Fisher a fine pezzo – una frase ormai talmente tanto sputtana da essere assimilata a quelle dei Baci Perugina – per essere considerati grandi intellettuali? Detta poi da uno che ha sempre esaltato un certo stile di vita edonista fatto di soldi, auto e donne. Per i rapper come Marracash, eliminare le differenze sociali (qualunque cosa possa significare) il più delle volte significa semplicemente fare più soldi possibile per entrare a far parte di quella fascia sociale più ricca che non fa altro che alimentare ulteriori differenze sociali. È solo rivalsa.
Pagliaccio e Cosplayer, ad esempio, non sono nient’altro che delle perculate continue nei confronti di chi, secondo il rapper, si cala la sua maschera pubblica cercando approvazione per mettersi in mostra. Ma guarda un po’! È la stessa cosa che fa Marracash nel momento in cui veste i panni del cattivo di turno urlando NON AVREI PAURA DI VOI NEMMENO SE FOSTE DAVVERO ARMATI! VOLETE FARE LA GUERRA CON ME? FATE LA GUERRA CON IL PIU’ FORTE! Insomma, solito, vecchio, ultra contemporaneo individualismo.

Marracash spara continuamente a zero nella mischia, confondendo tutto e il contrario di tutto e non lasciando mai capire contro chi o cosa realmente vorrebbe scagliarsi. In questo modo però non si fa nessuna critica, bensì solo ragionamenti da bar, affettati e superficiali, che permettono inoltre di partorire banalità qualunquiste di questo tipo:

Oggi che possiamo rivendicare di essere bianchi, neri, gialli, verdi
O di essere cis, gay, bi, trans o non avere un genere
Non possiamo ancora essere poveri
Perché tutto è inclusivo a parte i posti esclusivi, no?
Oggi che tutti lottiamo così tanto per difendere le nostre identità
Abbiamo perso di vista quella collettiva
L’abbiamo frammentata
Noi, loro e gli altri
Noi, loro e gli altri
Persone

E qui ci starebbe un enorme, mastodontico ESTICAZZI!? La lotta per il riconoscimento delle minoranze non eterosessuali e non bianche viene confusa con le polemiche reazionarie ed identitarie, il narcisismo da social equiparato alle voci di chi davvero avrebbe qualcosa da dire e da denunciare, e così via in un continuo turbinio dove tutti interpreterebbero una parte. Fenomeni ed eventi di natura differente e che meriterebbero gli opportuni distinguo ed una sensibilità, questa si, critica vengono messi insieme in un magma indistinto. Tutto è ridotto ad un semplice gioco di maschere: non c’è un sopra o un sotto, tutto è smussato e messo sullo stesso livello per poter essere criticato. Invece di indagare le motivazioni politiche e sociali di tali spinte al riconoscimento, Marracash preferisce la via facile facendo di tutta l’erba un fascio. Non solo: pretende anche di tirarsi fuori da questa realtà e di adottare uno sguardo che vorrebbe passare per disincantato o quanto meno super partes, ma che tale non riesce ad essere, finendo solo per fargli fare la figura di chi non ci sta capendo assolutamente nulla. Ecco allora il colpo da intellettuale 2.0: bisogna ritornare ad essere persone! Un pensierino degno di uno status su Facebook, ma Marracash ci ha fatto sopra un disco e c’è chi l’ha pure elevato a rango da intellettuale.


I versi sopra riportati, inoltre, stridono tantissimo in un album in cui, in pieno spirito individualista, si mette in scena continuamente una visione tribale del mondo, dove vige la guerra di tutti contro tutti – i puri e i sinceri vs. gli ipocriti e gli arrivisti – e dove si ammette tranquillamente che Noi siamo qui a fare quello che ci piace, loro sono la fuori che criticano e tutti gli altri sono intorno che tirano avanti. Potessi scegliere, sceglierei cento mila volte noi, ma è un attimo che ti ritrovi in mezzo a loro o che finisci male… come tutti gli altri. Morale della storia: che schifo essere come tutti gli altri.
Marracash crede di parlare di persone ma in realtà parla solo di una cosa: di sé. Quando dice Noi sta dicendo Io, il suo mondo, la sua musica, la sua famiglia, i suoi amori, i suoi successi, la sua sincerità, la sua superiorità morale. Il Loro esiste come entità giusto al di là del confine, per lo più come avversario indistinto (e quindi adatto per tutte le stagioni) da sconfiggere questa volta non con armi e pallottole ma con il valore morale dell’attitudine e della supposta autenticità. Gli Altri assistono a questo spettacolo, pubblico urlante nell’arena dei gladiatori oppure come massa grigia ed indifferente, costretta a vivere una vita piatta ed anonima.

Alla fine della fiera la cosa preoccupante non è tanto che un rapper che ha da sempre impostato la sua narrazione in questo modo lo faccia ancora una volta: è quello che gli riesce meglio ed è quello che il suo pubblico richiede, probabilmente. Il serio problema è che buona parte della stampa musicale si lasci abbagliare in modo così grossolano. Perché? Per fare cosa? Qual è l’obiettivo ultimo? Forse il livello culturale è talmente tanto basso che non appena qualcuno sembra dimostrare delle qualità appena sufficienti per produrre qualcosa di decente si grida al miracolo. O forse siamo talmente annoiati dalle nostre vite tutte uguali che sentiamo la necessità di creare sempre nuovi eroi, capolavori ed opere immortali per dare un senso ulteriore al tutto.

Ancora: più prosaicamente, siamo dei poveri coglioni che vogliono sentirsi migliori di tutti gli altri. Vogliono vivere anche loro una vita alla Marracash. Vogliono anche loro provare l’ebrezza dei soldi, dello champagne versato sui corpi perfetti delle modelle e dei modelli, di sfrecciare in Lamborghini per poi tornare nella propria villa con piscina per piangere lacrime di diamanti nell’ennesima storia su Instagram dove ci lamentiamo di non essere compresi e di quanto crudele e falso sia il mondo.

Che stanchezza. Che noia.
Naufraghi in un mare in tempesta, ancora un volta. In attesa che il treno deragli una buona volta facendo calare il sipario su questo spettacolo senza fine.

Interferenze da un futuro passato

Questa notte ho fatto un sogno di natura musicale. Non è stato il primo di questo tipo – ho sognato altre volte di suonare o di gente di mia conoscenza nell’atto di suonare – ma è stato il primo per la particolare tipologia di sogno musicale messo in scena: quello che riguarda musicisti famosi.
In sostanza, il mio inconscio ha pensato di farmi sognare Damiano David, cantante dei Maneskin, mentre stava suonando con i Nirvana. Al posto di Kurt Cobain. Era proprio lui, petto nudo, tatuaggi e tutto il resto, mentre dava sfogo in modo melodrammatico alla sua performance, gli occhi chiusi e le mani semi aperte intorno al microfono appoggiato sull’asta.
Non pervenuti gli altri componenti dei Nirvana , il sogno gli ha esclusi dalla mia visuale; una volta sveglio, però, ho immediatamente percepito e sentito che fossero esattamente loro. O meglio, ciò che era rimasto dei Nirvana dopo la morte di Kurt Cobain, ovvero Dave Grohl e Krist Novoselic. Insomma, i Nirvana di questo sogno così esplicito ed immediato erano rimasti sempre un trio, ma con un altro frontman.

La cosa che mi più mi ha sconvolto una volta che la mia mente è riuscita a riesumare il sogno (nella tarda mattinata stavo camminando per strada quando sono incappato nella vetrina di un piccolo negozio di magliette e vinili che esponeva quello di Nevermind, e da lì allora l’emersione improvvisa) è che, di per sé, non era poi così assurdo come potesse sembrare. E non perché si è trattato di un sogno che ha avuto come protagonisti esclusivamente dei musicisti – e non, che so, elementi diversissimi e lontani fra loro che messi insieme ti fanno dubitare della tua sanità mentale – ma proprio perché l’eventualità che uno dei cantanti e frontman attualmente più in vista della scena musicale internazionale potesse cantare con uno dei gruppi rock più famosi della storia, non è così improbabile. Non lo sto augurando, non me ne importa nulla dei Maneskin, di Damiano David e della loro musica (che mi lascia completamente indifferente). Non è questo il punto.
Il punto è che nell’epoca di totale saturazione musicale in cui viviamo, i revival degli anni passati sono diventati l’unica ancora di salvezza di un’industria musicale che cerca di fare cassa puntando sulla fascinazione del passato. I Maneskin sono l’ultimo stadio di questo processo che va avanti da almeno una decina d’anni, un processo che non riesce a partorire niente di originale e di nuovo ma solo copie su copie con minime, se non inesistenti, variazione sul tema. Questa ossessione passatista si è manifestata specialmente in ambito rock: basti pensare ai biopic nati negli ultimi anni o ai prossimi ancora in fase di produzione, da quello dei Queen ad quello su Elton John, le cui vicende sono entrate nell’immaginario comune e che assumono i contorni eroici degni del Marvel Cinematic Universe.
Anche i Nirvana non sfuggono a questa dinamica, essendo ormai stati elevati dall’industria musicale a vero e proprio brand che identifica un decennio, i ’90. Fra un batterista che che ama dipingersi come il paladino della musica suonata e che sa perfettamente come vendere la sua immagine, gossip al limite del ridicolo, anniversari, un bassista che cerca in tutti i modi di non scomparire dall’anonimato e tributi che non ti aspetti, il mito costruito intorno ai Nirvana continua ad imporsi ed ad essere cavalcato, sfruttato, monetizzato. Continua insomma ad occupare una parte importante del nostro immaginario, non solo musicale, ma culturale tout court.

Suona così improbabile, quindi, che un giovanissimo cantante ritrovatosi alla ribalta mondiale letteralmente da un giorno all’altro, possa ricoprire il ruolo che fu di Kurt Cobain? Nell’era dei revival, dei remake e dei reboot, questo tipo di operazioni non sono assolutamente impossibili; anzi, sono auspicabili. Teniamo a mente che i Maneskin occupano oggi una fetta di pubblico estremamente ampia, che va dall’ascoltatore saltuario che si accontenta di ciò che passano gli algoritmi di Spotify e i maggiori canali radio al rockettaro piagnone (che magari suona nella cover band dei Nirvana) che si lamenta che non c’è più la musica di una volta ommioddio signora mia dove andremo a finire!!! Attirano sia millennials e Gen Z che boomers dai sessantanni in poi cresciuti coi Pink Floyd e Led Zeppelin. Hanno aperto negli Stati Uniti per i Rolling Stones e collaborato con Iggy Pop, due operazioni astutissime per le quali i manager dei Manskin meriterebbero, chessò, la presidenza di Confindustria a vita, visto che di tali operazioni hanno beneficiato non solo il giovane gruppo romano ma anche i suddetti vegliardi. È il passato che ritorna, ciclicamente ed eternamente, ma questa volta non sotto altre forme che danno almeno l’illusione del nuovo e del passaggio del tempo, bensì di un eterno ritorno dell’uguale, di un collasso temporale che diventa eterno presente. Di un contenitore vuoto già predisposto per essere riempito alla bisogna.
Davvero pensare l’impensabile – Damiano David che canta con i reduci dei Nirvana anche solo per un paio di pezzi per un’esibizione televisiva – risulterebbe allora così impossibile?

Il mio sogno è frutto dell’interferenza che il nostro mondo saturo di immagini e di icone invia costantemente al nostro inconscio. Sono forme intrusive, subdole e silenziose di ricostruzione e interpretazione del presente da parte della coscienza, che ad occhi aperti, invece, non riesce a stare dietro a tutti questi stimoli. Siamo arrivati ad una saturazione dei sogni? I fantasmi del passato si impossessano dei televisori, dei social, delle radio, delle copertine delle riviste e delle discussioni per materializzarsi anche nei nostri sogni?
Forse ciò che ho sognato non si avvererà mai, e quel sogno rimarrà lì, sospeso per un po’ fino a quando non si scioglierà da sé.
Ma sono certo che se domani dovesse circolare la notizia di una possibile collaborazione fra Damiano David e il resto dei Nirvana, non ne sarei assolutamente stupito.