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Ma che v’ha fatto The X Factor?

Il disco degli Iron Maiden del 1995, intendo, non il programma che ultimamente ha portato alla ribalta un gruppo di ragazzi ignari (???) di essere usati come ennesimo vuoto contenitore di un’industria musicale che anno dopo anno capitalizza e va avanti grazie all’immaginario del passato.

Si, quindi, The X Factor degli inglesi Iron Maiden, dicevamo. La merda spalata su questo album è stata talmente tanta nel corso degli anni che quella cagata dal triceratopo di Jurassic Park in confronto è bignè al cioccolato. Ma questo è il problema di essere fan, c’è sempre il rischio di rimanere obnubilati di fronte a tutto ciò che fanno i propri beniamini, e ogni cambiamento è visto con grande sospetto, se non proprio con ostilità. Non so esattamente da dove derivi la parola inglese fan, ma a me ha sempre fatto venire in mente il termine fan-atico. Ecco, chi ha sputato e continua a sputare su The X Factor mi sembra che si comporti da fanatico dei primi Maiden, quelli dei capolavori degli anni ’80, quelli che a partire dagli anni ’90 hanno iniziato a fare schifo. Non è vero, e i motivi sono essenzialmente due:
1) c’è No Prayer For The Dying che è lì a testimoniare il contrario;
2) The X Factor è qualcosa che i Maiden non avevano mai provato prima, una scommessa non tanto verso i loro fan, ma soprattutto verso se stessi. E che, alla fine, bisogna ammettere che hanno vinto.

Capiamoci, non stiamo parlando di un album rivoluzionario, né per la storia del rock/heavy metal, né per la stessa carriera del gruppo inglese. Premetto una cosa, però, qualcosa che potrebbe far cambiare immediatamente pagina a chi sta leggendo: a mio avviso, gli Iron Maiden non hanno mai realmente rivoluzionato il loro stile. Ovviamente hanno fatto la storia di un genere musicale perché sono stati fra i primi gruppi a canonizzare quel genere e a dargli un’identità ben precisa. Ma la loro carriera non ha mai realmente subito cambi di rotta – repentini o progressivi che siano – tali da costituire un prima o un dopo. Quello che i Maiden hanno fatto, invece, è stato giocare di volta in volta con questo o quell’aspetto del linguaggio heavy metal; sottolineare e finanche estremizzare determinate loro caratteristiche stilistiche; adottare diverse vesti in sede di produzione. Non hanno mai abbandonato la loro strada principale; con loro non si può neanche parlare di vere e proprie deviazioni, ma al massimo di variazioni nel ritmo di marcia. Non stiamo parlando, chessò, dei King Crimson che negli anni ’80 si sono messi a suonare new wave, o dei Sepultura che, manco a farlo apposta, a metà anni ’90 hanno incominciato a mettere bonghi e marimbe in mezzo alla doppia cassa e ai chitarroni. Poco importa se per i Maiden del nuovo millennio c’è un ritornello più aperto e “arioso”, una canzone più lunga, una produzione più cristallina o piena di bassi e i mid tempos: tutte queste caratteristiche sono sempre state in nuce sin dal primo album della band e, di volta in volta, sviluppate e rimaneggiate alla bisogna. Reputo che il successo che gli Iron Maiden riscuotono ancora oggi presso un pubblico più giovane – cosa letteralmente incredibile per un gruppo di sessantenni, in un periodo in cui millennials e gen z non si inculano manco per striscio la musica con le chitarre – sia dovuto proprio al fatto che Steve Harris & co. abbiano sempre giocato sul sicuro, da attenti professionisti quali sono.

Tutto sto pippotto per dire che:

DOVETE LASCIARE STARE THE X FACTOR PERCHÈ È UN DISCO BUONO BUONO COME IL PANE E NUTELLA, E SE NON VI PIACE LA NUTELLA (ESISTE QUALCUNO A CUI NON PIACE???) ALLORA SIETE TRISTI E SI SPIEGA PERCHÈ NON VI PIACE THE X FACTOR!

Ero tentato di chiudere il pezzo così, però poi mi sono detto che no, dai, bisogna ribadire il concetto che se non vi piace questo disco siete proprio delle persone orrende. Cos’è che non vi acchiappa, la produzione? La produzione è la vera novità qui in casa Maiden, e per questo è comprensibile, da una parte, come mai i fan dell’epoca siano rimasti di merda. Però dai ragazzi, son passati ventisei anni e c’è una pandemia mortale in corso, ora è tempo di crescere e di guardare le cose sotto un’altra prospettiva. La produzione di questo lavoro si discosta da quella dei dischi del passato: meno epica e pomposa ma più “liscia” e oscura, ha una sua coloritura molto peculiare, dai toni depressivi, perfetta per accompagnare i testi incentrati sulle conseguenze psicologiche della guerra e su un mondo schizofrenico, violento e sull’orlo del baratro. Gli strumenti sono immersi in una penombra perenne, emettendo i loro timbri come se parlassero in sottovoce. D’altronde, all’epoca la band stava attraversando un periodo molto difficile, e di conseguenza questo si riflette sull’intero lavoro. Per tutti questi motivi, e considerando anche il periodo in cui è stato pubblicato, ai miei occhi The X Factor è un po’ l’album “grunge” degli Iron Maiden.

E cos’altro non vi acchiappa? Blaze Bayley? Qui si ritorna al discorso in apertura: non fare i fan fanatici. Bayley e Dickinson non c’entrano nulla l’uno con l’altro, questo è ovvio. Perché i Maiden abbiano optato per il cantante dei Wolfsbane? Non ne ho idea, ma c’è da dire che la scelta è stata azzeccata. Perché? Qui vi rimando invece al quesito precedente sulla produzione. Ve lo immaginate Dickinson, con i suoi acuti e i suoi SCREEEEEAAAM FOR MEEEEEEE, cantare gli ombrosi testi di The X Factor? Io no. La voce di Bayley, invece, è ottima per il taglio che la band ha voluto dare al lavoro; lui non è un cantante tecnico, non è nemmeno dotato dello stesso carisma di Bruce Dickinson, ma qui (come anche in Virtual XI, si proprio lui, l’altro disco che vi fa schifo) fa un ottimo lavoro e centra l’obiettivo. Mi sbilancerei troppo nel dire che Bayley suona più come un bluesman, o al massimo come un cantante rock, anziché uno heavy metal? Boh, ma mi va di sbilanciarmi ugualmente. Vedetela come vi pare, rimane il fatto che senza Bayley questo disco perderebbe tantissimo del suo fascino.

Per il resto sono i soliti, vecchi, cari Iron Maiden. E qui ritorniamo all’altro discorso precedente, ovvero sul fatto che il gruppo non ha mai realmente cambiato pelle. Il songwriting è rimasto pressoché identico, con cavalcate, aperture, assoli velocissimi e melodici e tutto il classico ambaradan. L’apertura e la chiusura del disco, rispettivamente affidate a Sign Of The Cross e The Unbeliever, mi fanno impazzire: la prima perché è una vera e propria dichiarazione d’intenti, un chiaro avviso affisso dal gruppo per tutti gli ascoltatori che da qui in poi le cose suoneranno in maniera leggermente differente rispetto al solito, con il basso che sembra scandire i rintocchi come una campana; la seconda con quelle gustosissime aperture delle chitarre acustiche nel pre-chorus, che conducono ad un ritornello coinvolgentissimo. Non riuscite ad ascoltare il disco dall’inizio alla fine perché vi rompete le palle? Provate ad ascoltarlo a pezzi, ad esempio uno o due pezzi alla volta. Fate delle lunghe pause fra una canzone e l’altra, magari ascoltatene un paio un giorno e un paio il giorno dopo, fate voi. In questo modo, secondo me, viene meno l’effetto destabilizzante del disco nel suo insieme mentre, ascoltando solo singole canzoni, si riuscirebbe ad entrare gradualmente nel mood dell’album, lasciandosi coinvolgere dai singoli pezzi.


Se lo stile è rimasto immutato, l’unico elemento che è cambiato è la durata generale del disco, che supera l’ora, indicatore del fatto che i Maiden si sono dilettati con pezzi un po’ più lunghi del solito. Per questo motivo, The X Factor può essere visto come il precursore degli attuali dischi dei Maiden, quelli da Brave New World in poi, tutti dischi che durano più di un’ora e che vedono al loro interno pezzi che superano la durata media di un singolo radiofonico. Attenzione: negli anni ’80 ci sono stati alcuni pezzi lunghi e dal taglio “progressive” (altro discorso da affrontare, quello dei Maiden prog, magari quando uscirà Senjutsu a settembre, sempre se sto blog ci arriverà a settembre), basti ricordare Hallowed Be Thy Name, Rime of the Ancient Mariner, Alexander The Great, Seventh Son of a Seventh Son; d’altra parte, l’amore di Steve Harris per il prog anni ’70 non è mai stato un mistero. La differenza sta semplicemente nel fatto che in The X Factor questa inclinazione diventa parte integrante del processo creativo della band. Gli Iron Maiden non sono quindi diventati di punto in bianco come i Genesis: avevano già in nuce, come specificato prima, i germi di questa tendenza. Ancora una volta i Maiden non cambiano, anzi, rimangono sempre gli stessi.

Furboni i Maiden, dei gran furboni. Come disse un mio amico una volta: “loro hanno trovato la formula del successo”. Come la Coca Cola, le Nike, Google, Amazon. Comprare un loro album o andare ad un loro concerto è come pagare un biglietto per entrare a Disneyland: un luogo dove divertirsi ed essere catapultati in un’altra dimensione.
Chissà, forse The X Factor è ancora così tanto bistrattato perché i Maiden avevano fatto vedere che anche la loro Disneyland può essere fragile e ad un passo dal precipizio.

Old men yell at clouds: Eric Clapton e Van Morrison giocano a fare gli anti-vaccinisti

Boh, cioè in pratica qualche giorno fa apro l’internet, spulcio le notizie e leggo che Eric Clapton si rifiuterà a suonare in tutti quei posti dove l’accesso sarà consentito solo ai possessori di green pass, cioè a chi è vaccinato contro il covid.
Rileggo di nuovo: le parole sono esattamente quelle, il mio cervello non può sbagliarsi. Eric Clapton. Eric “Slowhand” Clapton, si, proprio lui, insomma lo conosciamo tutti. Se la prende con il governo inglese perché ritiene la misura discriminante, e quindi, se gli gira, potrebbe cancellare i suoi futuri concerti.

Mi gratto la testa. Non capisco, mi sfugge probabilmente qualcosa. Ma Eric, così, de botto, senza senso? Ti alzi la mattina e spari na bomba del genere? Boh, mi piacerebbe capire come mai il buon Mano lenta si è svegliato di cattivo umore, e così cerco qualche altra informazione sempre sull’internet. La mia refrattarietà al gossip e l’epidermico odio verso il continuo turbinio delle news avevano colpito ancora. Con grande ritardo, apprendo che Clapton ha passato parte del 2020 e del 2021 a dire peste e corna contro i vaccini e i lockdown, prestando orecchio a politici e ad altre figure pubbliche che si dilettano con la carta stagnola mentre denunciano dai loro pc fantomatici governi ombra. Ha detto di aver ricevuto pure la sua dose di Astrazeneca e che è stata un’esperienza tremenda, ha avuto paura di non poter più suonare. Ha partecipato in due brani con Van Morrison (pure lui contro le misure anti-covid, così, de botto) e come due Bonnie & Clyde (o Cip e Ciop, se volete) si sono fatti i pompini a vicenda prendendosela contro questo e quello, e che non siamo liberi, e che dobbiamo combattere perché se no sarà un lockdown perenne, e che qua una volta era tutta una rivoluzione, e non ci sono più i ribelli di una volta, signora mia!

Povero Eric. O forse povero me, che non capisco davvero come stanno le cose. Che i fan di Clapton si aspettino proprio questo? Oppure il chitarrista inglese ha adocchiato un nuovo segmento di marketing da sfruttare? Tipo il “lockdown blues” o il “covid blues”… che poi, quanto cazzo è blues il lockdown??? No davvero, immaginatevi un bluesman chiuso in casa, sigaretta perennemente accesa sul posacenere, accanto un bicchiere di whisky, solo lui e la sua chitarra mentre ulula ubriaco una cosa tipo: “Questa casa è fredda e buiaaaa, proprio come la mia animaaaa/Una donna ormai è cosa anticaaaa, mi rimane solo la mia mano amicaaaa“.

Capisco che uno possa essere spaventato, vista l’eccezionale situazione in cui il mondo è recentemente precipitato; capisco anche che un musicista del suo livello, di fama mondiale e con una carriera che va avanti da circa 60 anni, appena sente qualcosa che non va nel suo corpo – e soprattutto nelle sue mani – vada nel panico; capisco anche che hai le palle girate perché ti sono saltati i tour, e si sa, oggi i musicisti tirano a campare vendendo i biglietti dei concerti. Capisco tutto. Quello che non capisco – o meglio, quello che la mia mente si rifiuta di accettare – è come un musicista di tale caratura, che ha davvero rappresentato nel corso dei suoi anni migliori cosa significhi ribellarsi all’autorità, possa sminuire e banalizzare l’idea fondamentale di ribellione, riducendola ad un generico e cieco ribellismo infantile in salsa complottista. Davvero per Eric Clapton e Van Morrison non indossare una semplice mascherina e non vaccinarsi sarebbe segno di ribellione? In che modo seguire delle semplici regole che possono salvare la propria e la vita altrui significherebbe andare controcorrente?

Quanto cantano Clapton e Van Morrison in The Rebels è vero. Sono d’accordo con loro: che fine hanno fatto i ribelli? Dove sono finiti? Nel video scorrono le immagini stilizzate di alcune icone musicali degli anni ’60 e ’70, gli anni nei quali i due musicisti hanno inciso i loro dischi più interessanti e durante i quali sono assurti a simboli per un’intera generazione che si abbeverava alla fonte della controcultura americana, che contestava il massacro e l’invasione del Vietnam, che si batteva per i diritti civili e sociali, che esplorava nuovi territori, dall’arte alla sessualità, sino alle droghe e alla spiritualità. Erano davvero anni ribelli. Oggi, a distanza di metà secolo (dovremmo ripetercelo più spesso e più lentamente, M E T À S E C O L O, per realizzare pienamente l’oceano di tempo che divide l’oggi da allora e che sembra essere passato in un lampo), ovviamente le cose sono radicalmente cambiate. I ribelli nella musica non ci sono più perché sono stati assorbiti dal music business o tagliati completamente fuori da esso. Le nuove icone pop sono troppo interessate a loro stesse, ai loro piccoli drammi quotidiani e alle loro stories sui social per poter cantare di ciò che non va nel mondo. Eppure, di motivi per ribellarsi e incazzarsi di certo non ne mancano; ciò che scarseggia è la coscienza ribelle. Abbiamo tutto e di più, e finché curiamo esclusivamente il nostro orticello non ci interessiamo a ciò che accade intorno. Durante la pandemia, le nostre ansie e insicurezze verso il futuro sono cresciute (non quelle dei miliardari, per loro sono aumentati solo i portafogli). Il mondo ha assunto ancora di più i contorni di una lotta di tutti contro tutti.

Nello stesso tempo, però, la ribellione di cui parlano Clapton e Van Morrison è solo una grottesca caricatura che finisce per scadere, appunto, nel ribellismo spicciolo. Adottare una mentalità complottista, denunciando un generico ed inconsistente “loro” come simbolo di un’autorità malvagia, non aiuta e non serve a nulla, anzi, fa proprio il gioco del potere. Avrai pure fatto gli anni ’60 e tutte le lotte controculturali ma se non sei capace di analizzare il presente e di sceglierti le lotte, rischi solo di fare più danni, soprattutto se sei un personaggio pubblico molto in vista.
Mi chiedo: è questo, quindi, ciò che rimane in ambito musicale della ribellione? Si è passati dalle ballate di Bob Dylan e Joan Baez, che cantava di Sacco e Vanzetti denunciando l’abuso del potere sui deboli, a una visione della realtà paranoica dove il giusto e l’ingiusto sono calibrati ogni volta sui desideri del singolo? Dire che è deprimente è dir poco. Dove sono le alternative? Sicuramente ci sono, e risiedono, come sempre, nell’underground musicale, quello lontano dai riflettori, dalle grandi arene e dai grossi numeri. Ma il punto è far arrivare determinati messaggi “sopra”, al grande pubblico. Perché finché si è i soliti quattro gatti che ascoltano e recepiscono certi messaggi non cambierà nulla.

E la cosa che più di tutte mi fa incazzare è che il nuovo album di Van Morrison è pure una figata. Un doppio album stilosissimo, fra jazz e blues, con una produzione molto curata e ogni pezzo carico di groove. Nella prima parte è presente anche la stessa The Rebels, arrangiata senza Clapton. I testi… bè, vi lascio immaginare di cosa possano parlare. Di certo non denunciano, ad esempio, il monopolio dei vaccini da parte dei paesi più ricchi ai danni di quelli più poveri, nei quali solo circa l’1 per cento della popolazione ha potuto ricevere finora una dose.
Certo che no. Non sarebbe stato troppo da ribelli.